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Dalla Catalunya al Trentino. Indipendenza e autonomia. Federalismo europeo. Sovranità da condividere e un pugno che deve farsi carezza.

A tal proposito Marta Rovira, una delle dirigenti di ERC che ha scelto di sottrarsi alla giustizia spagnola fuggendo all’estero, ha lanciato un monito a chi rimane:

«Vi voglio dire un’ultima cosa: non lasciate che il rancore si impadronisca di voi. L’analisi di una realtà antidemocratica e profondamente ingiusta non deve cedere il passo al risentimento. Contro nessuno. Contro niente. Solo a partire dal rispetto e dall’amore verso tutti i cittadini e tutte le opinioni costruiremo cambiamenti radicali e profondi. Solo dal lavoro comune otterremo una Repubblica per tutti. Come dice Oriol Junqueras [ex vice-presidente della Generalitat Catalana, oggi in carcere]: “In questi giorni che verranno rimanete forti e uniti, trasformate l’indignazione in coraggio e perseveranza. La rabbia in amore”».

Ci siamo trovati di fronte a un corto circuito nel quale nessuno dei protagonisti è privo di responsabilità e di contraddizioni da sciogliere.

In difficoltà sono gli indipendentisti che rischiano di passare dal sogno dell’indipendenza al sentir mancare sotto i piedi – soprattutto dopo l’utilizzo dell’art.155 da parte del Governo di Madrid – anche la sicurezza di continuare a gestire autonomamente fette rilevanti di governo territoriale. L’ipotesi catalanista, intesa come movimento che mette al centro il riconoscimento della nazione catalana – così come inserito nello Statuto del 2006 bocciato dalla Corte Costituzionale spagnola quattro anni dopo –, non è più così trasversale all’interno della popolazione e rischia di fratturarla in profondità, per generazioni.

In difficoltà è il governo di Madrid, alle prese con la transizione post-franchista che sembra non concludersi mai. Dal punto di vista economico la situazione è di stallo, con criticità sociali – la questione abitativa, l’alta disoccupazione, ecc. – che non trovano soluzioni. Dal punto di vista istituzionale invece il problema sta nella non chiarezza del rapporto tra il governo centrale e le“regioni e nazioni” autonome, le entità territoriali che la Costituzione prevede nominalmente senza definirne però concretamente le forme e le competenze. Dentro questa indeterminatezza si muove l’altalenante storia delle autonomie locali, a seconda del sentimento dominante nelle forze di Governo, e crescono le spinte indipendentiste.

In difficoltà è l’Europa, per motivi diversi e complementari. Da un lato perché non è capace di intervenire di fronte alla violazione delle libertà individuali e politiche da parte del Governo Rajoy, fallendo nel tentativo di rimettere al centro i linguaggi della politica e della mediazione. Dall’altro – e rappresenta una pericolosa ipoteca sulla sua stessa sopravvivenza come entità politica sovranazionale – perché non sa ascoltare le diversità che la compongono per immaginarsi essa stessa diversa e migliore, sia per quanto riguarda l’infrastruttura democratica che si è data (oggi fragilissima e ancora troppo ancorata al funzionamento intergovernativo) che per la sua prospettiva politica, da orientarsi con maggiore convinzione in ottica federalista e sociale.

Sono proprio questi due i temi – modello federalista e centralità del sociale – che ritornano nei vari incontri e rappresentano le premesse di una terza via possibile, purtroppo minoritaria e inascoltata. Un’opzione che sta tra l’incudine e il martello di due nazionalismi che si fronteggiano e che intende la sovranità come terreno del confronto tra differenze. Spazio per un’idea di governo non proprietario che va ceduto e condiviso, piuttosto che rivendicato o imposto. Un pensiero complesso che sfugge alla forza centripeta del valore simbolico delle identità e delle lingue, delle tradizioni e delle bandiere, dei territori e dei confini, interrogandosi sugli elementi costituenti di nuove comunità di destino. Le migrazioni e le nuove generazioni di cittadini che esse determinano, il governo collettivo dei beni comuni, il municipalismo, l’inclusione sociale come fattore di solidarietà e sicurezza. Comunità di destino tra loro non divise ma in costante comunicazione, non omogenee ma ibride, non tenute insieme dalla storia di un passato comune – spesso più romanzato che reale – ma dall’ambizione di un futuro da vivere insieme.

La questione di fondo – su scala europea, perché a quel campo parlavano gli interlocutori del nostro itinerario – è quella di capire come valorizzare autonomie e particolarità territoriali e di come articolarle dentro modelli di governance capaci di farsi carico oltre che del buon governo della prossimità anche la rotta di navigazione nel mare aperto della globalizzazione. Una condizione d’incertezza a livello planetario che amplifica con sempre maggior potenza lo scontro fra società chiusa e aperta, tra rinserramento sovranista e visione cosmopolita. Fratture che lasciano cicatrici profonde nel corpo sociale che quotidianamente deve convivere nella stessa città, nello stesso quartiere, nello stesso condominio. Testimonianza ne è – forse di scarso valore statistico ma di forte impatto simbolico – la comparsa ai balconi tanto di bandiere catalane che spagnole, pur in numero inferiore. Uno scontro cromatico e politico nuovo, di cui tener conto.

Alexis Rodriguéz-Rata – storico del federalismo e giornalista per La Vanguardia – ci ha spiegato che il problema è che le posizioni indipendentista e statalista sono come due mani chiuse a pugno. Serve che quei due pugni si sciolgano e tornino ad essere mani operose capaci di carezze e di cura reciproca, di dialogo generativo, di mediazione utile a tutti. Un’impresa visto il clima di queste settimane, dove chiunque tenti di rompere uno dei fronti identitari – prima fra tutti la Sindaca di Barcellona Ada Colau – corre il rischio di essere accusata di tradimento dalla propria parte di riferimento.

Serve quindi tradire per ripensarsi e per saper interpretare lo spirito del tempo senza farsi spaventare da esso. E la Catalunya parla anche al Trentino, pur con sfumature diverse e fortunatamente meno conflittuali.

Perché il Trentino (e con esso l’Alto Adige) aveva l’occasione – non colta dentro il percorso di scrittura del proprio Terzo Statuto – di aprire una nuova fase della storia autonomista, con gli occhi e la testa rivolti al sogno di un’Europa davvero federalista e non più alla contrattazione con lo Stato nazionale. E ancora, perché nella fase che conduce alle prossime elezioni provinciali (e non solo) c’è lo spazio – tutto da definire – e la necessità – sempre più evidente – di impostare un nuovo ragionamento territorialista che non ceda, omologandosi all’andamento di gran parte dell’Occidente, alle sirene sovraniste e ai richiami identitari, e apra il campo alla costruzione collettiva di un percorso sociale, culturale e di conseguenza politico capace di farsi carico della sfida di tenere insieme locale e globale, preferendo un approccio cooperativo e solidale a uno escludente e competitivo.

Chi ci proverà – io sarò tra questi, per quanto mi sarà possibile – abiterà un terreno sicuramente scomodo ma obbligato. Serviranno compagni di viaggio consapevoli ed eretici, più curiosi di conoscere la comunità che verrà che nostalgici rispetto alla comunità che è stata e non è più.

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