Operazione Fosbury *
23 Ottobre 2018Dove voleranno gli uccelli dopo l’ultimo cielo?
26 Ottobre 2018Il libro conteneva analiticamente trenta tesi molto rilevanti sull’umanitario: a partire dalla prima: “l’inganno dell’emergenza”, quella perversione che molti anni dopo Naomi Klein avrebbe definito in un libro: “Shock Economy”o che Lucia Vastano a collegato ad epoche molto anteriori nei suoi mirabili e coraggiosi studi sulla diseconomia immorale delle ricostruzione sradicante succeduta alla tragedia del Vajont.
La tesi 6, insieme a molte altre, mantiene intatta tutta la sua nuda verità: “Rinunciando ad interrogarsi sulle cause che contribuiscono a determinare certe situazioni, l’approccio umanitario tende a lenire e a occultare i conflitti senza disinnescarli o rimuovere le cause sociali, economiche e politiche che li hanno generati, che in questo modo rimangono inindagate e inaffrontate (…). Spesso inoltre i paesi che finanziano gli aiuti umanitari, attraverso le politiche dei propri governi, le politiche economiche delle istituzioni finanziarie internazionali e gli interessi privati di potenti soggetti economici internazionali, giocano un ruolo determinante nello scatenare o nel promuovere le crisi e i processi distruttivi e degenerativi su cui poi interverranno con le forme caritativo-assistenziali. L’umanitario contribuisce a nascondere le responsabilità politiche ed economiche occidentali”.
Altri temi rilevanti affrontati nel libro erano la: “svalorizzazione e corruzione dei contesti locali”, la “rinuncia alla politica e il neocolonialismo”, il“ruolo dei media nel rapporto tra umanitarismo e profitti con la conseguente mercificazione del dolore e della vita”, chi fosse il “nostro prossimo in tempo di globalizzazione”. Molto significativo era il racconto della prima famosa pubblicità di Medici Senza frontiere, nel Natale del 1976: “Medici senza frontiere. Nella loro sala d’attesa 2 miliardi di uomini”.
Gli autori del libro mettevano a confronto la roboante “pubblicità” con una famosa lettera di Don Lorenzo Milani: “Non si può amare tutti gli uomini (…) Di fatto si può amare solo un numero di persone limitato, forse qualche decina, forse qualche centinaio. E siccome l’esperienza ci dice che all’uomo è possibile solo questo, mi pare evidente che Dio non ci chiede di più (…). Quando avrai perso la testa, come l’ho persa io, dietro poche decine di creature, troverai Dio come un premio”.
Due misure diverse, scrivevano gli autori, due idee di umanità e di impegno civile. Una riflessione che giungeva a una domanda molto concreta e tutt’ora bruciante: “Nell’epoca della globalizzazione chi è il nostro prossimo? A chi dobbiamo farci prossimi?”
Il testo si concludeva con un documento molto severo rispetto “all’illusione umanitaria” che proponeva: “sette passi verso un’altra solidarietà” e che in maniera netta affermava come: “l’umanitario è semplicemente lo strumento di autogiustificazione che ci diamo per mettere a posto la nostra coscienza, per nascondere e, in questo modo, continuare i conflitti”.
Nulla, ma proprio nulla in comune con la criminalizzazione odierna dell’impegno delle Ong sui temi dell’immigrazione e dei profughi, anzi, c’è un passaggio di quel libro del 2001 che appare scritto oggi: “In questa situazione, è la stessa dimensione del fenomeno migratorio a rendere inadeguate le forme tradizionali di tutela per le persone che fuggono da situazioni insostenibili come il diritto di asilo. Si può riconoscere questo diritto a poche persone, forse ad alcune migliaia. Ma che fare quando a scappare da situazioni invivibili di violenza e mancanza di tutto e a chiedere ospitalità e cittadinanza sono decine o centinaia di migliaia o addirittura milioni di persone?”
Il testo, riprendendo le riflessioni di Hannah Arendt in “Le origini del totalitarismo”, ricordava le situazioni originatesi negli anni trenta del novecento e la risposta inquietante, iniqua e inefficace che, fin da allora, era stata approntata dagli stati nazione: i campi d’internamento.
Campi che erano (e sono) un surrogato del territorio nazionale, uno spazio interno ed esterno in cui venivano rinchiuse le persone che non appartenevano per nascita ad un determinato sistema statale e che per diverse ragioni avevano perso anche la tutela giuridica e diplomatica nei paesi d’origine.
In questo ambito risultava era preziosa la lezione di Giorgio Agamben che raccontava che i campi (fintamente temporanei) costituivano lo spazio fisico in cui si manifestavano le logiche parallele di integrazione ed esclusione planetaria, lo spazio che si apre quando lo “stato di eccezione” comincia a diventare la regola.
Una risposta diversa possibile era, invece, legata al recupero dei diritti di cittadinanza politica ed economica: oltre la logica della mera sopravvivenza, ma verso il senso e la responsabilità della costruzione di un vivere comune.
“Darsi il tempo”
Facendo un passo ulteriore, rispetto al tema dell’illusione umanitaria, c’è la questione specifica, per citare nella sua interezza il titolo del bellissimo libro di Michele Nardelli e Mauro Cereghini della riflessione su “idee e pratiche per un’altra cooperazione internazionale”.
Ho sperimentato sul campo negli anni 2003-2005 l’impegno concreto nella conduzione dell’Agenzia della Democrazia Locale di Prijedor nella repubblica Srpska di Bosnia e poi, nell’ambito dell’Agenzia di Zavidovici nella federazione croato-bosniaca, i contenuti, illuminanti e altrettanto sferzanti di questo libro.
Il testo, come spiega bene Tonino Perna nell’introduzione, nasce e si nutre soprattutto di esperienze di vita vissuta nel tentativo di creare dei ponti di cooperazione popolare mentre la guerra nell’ex Jugoslavia distruggeva i ponti di pietre e cemento, calpestava ogni speranza di umanità e metteva in discussione l’idea stessa di umanesimo oltre che di cooperazione statuale multilaterale.
La ricostruzione della tragedia balcanica e delle incongruenze della pratiche di “ricostruzione”, diventa, da un lato, una riflessione sulla postmodernità incombente, dall’altra, proprio a partire dall’autocritica sull’illusione umanitaria, la ricerca di alternative possibili e praticabili.
Anche nel sindacato dobbiamo renderci conto, come ammonisce Perna, echeggiando Nardelli e Cereghini, che spesso parole come: “crescita, sviluppo, democrazia, cooperazione”, sono diventate parole vuote e “tossiche”.
E’ illuminante la chiave di lettura e la proposta del libro: ricostruire un diverso rapporto con il “tempo”, il tempo dei progetti, della iperproduttività, dell’accellerazione fasulla dei processi, della finitezza di un rapporto, nella cooperazione internazionale, troppo spesso vincolato a risorse scollegate dai bisogni e dai sogni reale che si vanno ad intercettare.
Cooperazione comunitaria transnazionale, non solo istituzionale, ma, nell’ottica del federalismo integrale territoriale, cooperazione di comunità e di società: non la comunità “maledetta”, per ricordare anche il testo di Aldo Bonomi sulla vicenda di Prijedor (il “buco nero d’Europa con le sue miniere di morte), ma una comunità che recupera la coscienza di luogo, anche grazie alla cooperazione decentrata, e ricostruisce questa identità in divenire, in rapporto con l’altro.
Allargando lo sguardo rispetto ai Balcani il libro, pur scritto oltre dieci anni fa, racconta del rapporto perverso dell’Africa e dell’America Latina con Fondo Monetario e Banca Mondiale, ma soprattutto dell’enorme ampiezza dell’intervento cinese, in grado spesso di spazzare via anche il ruolo, contraddittorio, se non perverso di queste organizzazioni internazionali, con investimenti economici senza precedenti e paragoni.
Perna concorda con Nardelli e Cereghini sul fatto che (sempre che anch’essa non diventi, come purtroppo accade, parola “vuota” e progettificio) la cooperazione di comunità e della partecipazione sussidiaria, sia una delle poche strade percorribili per chi crede ancora nella solidarietà fattiva. E’ la ricerca di un orizzonte di senso che nasce dalla scelta di fermarsi e di opporsi al “delirio del fare”, aprendosi al silenzio e al ragionamento, per poi ritrovare la direzione del proprio “agire”.
Una cooperazione, quindi, per citare Silvio Trentin, che sappia “liberare e federare” (“liberarci e federarci”), costruire ponti abitati non solo dai professionisti della stessa, ma dalle persone, con flussi sostenibili e mai unidirezionali. Il contrario, insomme, dei lanci di pacchi del dono che, troppo spesso, sono gemelli dei lanci delle bombe, siano essi armi vere e proprie o strumenti economici di dominio, magari portati avanti con un finto sorriso da Ong “embedded”.
E’ il tempo, lungo, della “bosanskakafa”, il caffè tradizionale bosniaco che io, in un incontro indimenticabile, sorseggiai tra Zavidovici e Zenica, con alcune vedove di Srebrenica, accompagnato da Agostino Zanotti, un “cooperante” scampato ad una terribile strage che uccise i suoi compagni e che ha fatto della “riconciliazione” ad ogni latitudine, sia essa nei luoghi dove nasce la Bora o nella periferia bresciana, una ragione, in senso letterale, di vita.
E’ il dolore, ma anche l’opportunità di mettersi in mezzo, di compromettersi con l’altro che ci permette, in un’ottica di umanesimo planetario, di ripensare la cooperazione, senza fermarsi ai soli aspetti psico-antropologici, ma prendendo la “ferita dell’altro”, anche rispetto alle dimensioni economiche e sociali complessive.
E’ un racconto concreto di “comunità di comunità” che non può non nutrirsi anche del fatto, a partire dalla questione ecologica, troppo spesso sottovalutata dal sindacato, del fatto che la comunità di destino è: “terrestre”, globale. E che, come ci ammonisce Papa Francesco nella Laudato sì, non rimane molto tempo da perdere.
Globali e solidali?
Continuando con la citazione di libri che compongono un cammino di riflessione non estemporaneo non posso non citare un testo del 2005, opera di un “grande cislino globale”, come Pietro Merli Brandini che, nel testo, affrontava i “nuovi scenari economici e nuove strategie sindacali”.
Il volume era dedicato a due nipotine di Merli Brandiniaffinchè lo leggessero dopo tre lustri… ci siamo quasi. Eravamo alla vigilia della crisi globale e l’ex segretario confederale cislino, forte della sua esperienza presso il Cese e il Tuac, si chiedeva quale fosse il ruolo di governi, imprese e sindacati rispetto alle: “scelte nella globalizzazione”.
Merli Brandini affrontava in maniera analitica la necessità di adeguare al tempo globale: “istituzioni, norme e comportamenti”.
E’ ormai dal 2012 che mi è stato affidato il delicato ruolo di rappresentante Cisl nel Punto di Contatto Nazionale presso il Ministero dello Sviluppo Economico al fine di far rispettare le Linee Guida Ocse destinate alle imprese multinazionali.
E’ un ruolo che ho sempre cercato di portare avanti tenendo sempre questi tre libri dentro la mia cassetta degli attrezzi, trovandomi spesso nel dilemma di come conciliare il complesso rapporto tra l’espansione delle multinazionali italiane in Africa, ma anche in Asia e America Latina, e la questione dei diritti delle popolazioni locali, a partire da quelle indigene, senza dimenticare le lavoratrici e i lavoratori disseminati lungo le catene di fornitura dei players globali.
In tempi di economia dell’interdipendenza mi sono trovato, più raramente, ad affrontare le questioni dell’irresponsabilità dello sviluppo qui ed ora, con comportamenti spesso “predatori” di multinazionali estere in Italia, ultimo il delicato caso Bekaert. Una vicenda “vicina” che ci ha fatto sentire concretamente le contraddizioni di un modello di sviluppo che cancella il lavoro nei tempi della digitalizzazione e della delocalizzazione produttiva.
Contraddizioni anche tra il marketing di una responsabilità sociale non autentica e la sensazione di essere con le armi spuntate laddove si riesce a far arrivare una contrattazione collettiva che non può che essere transnazionale, se non vuole essere residuale.
Anche qui forte e anticipatorio era l’insegnamento di Pietro Merli Brandini. L’irrompere della crisi e delle sue tossine di muri del risentimento e della comprensibile paura non può non farci comprendere l’urgenza di aggiornare e convertire il nostro sguardo, per scrivere il libro di oggi, del nostro tempo della complessità, aggiornando su alcune strade, su alcuni ponti abitati anche “l’internazionalismo sindacale”.
Un “internazionalismo sindacale” che non può non tenere conto, nel tessere nuove e necessarie alleanze, anche dei rapporti di forza e dello squilibrio di potere non solo tra imprese multinazionali e rappresentanza del lavoro (nelle imprese madri, ma anche in tutta la catena di fornitura e del valore), ma anche tra imprese multinazionali e governi, non solo quelli del c.d. ex “Sud del mondo”.
Cooperazione sindacale internazionale e sindacalismo glocale
Non siamo molto distanti dal trentacinquesimo anniversario del giorno in cui, il 23 novembre 1983, Pierre Carniti, Franco Marini, Sante Bianchini, Mario Colombo, Emilio Gabaglio, Pietro Merli Brandini e Nino Sergi firmarono l’atto costitutivo dell’Iscos, l’organizzazione della Cisl volta alla cooperazione sindacale internazionale.
Non è questa la sede per sviscerare le ragioni fondative dell’Iscos che, almeno a me, appaiono tutte attualissime, anche per ciò che ho descritto precedentemente e alla vigilia di un importantissimo congresso mondiale della Confederazione Sindacale Internazionale.
Dobbiamo uscire da una serie di equivoci: il valore di Iscos nella Cisl è, insieme, sindacale e culturale, economico e sociale, non come strumento, “progettificio” a se stante, ma in pieno raccordo con tutta l’organizzazione, in una filiera che deve raccogliere le categorie, come le confederazioni, le altre associazioni come Anolf, i territori e i settori produttivi, le possibili alleanze con un mondo composito, fatto di “consumatori responsabili” e associazionismo diffuso, ma anche, come il progetto Alpaca dimostra, nella trasparenza e nel rispetto dei reciproci ruoli, nel delicato rapporto con le imprese profit.
Già alcuni anni fa, quando mi fu raccontata da Gianni Rizzuto, allora alla Femca Cisl regionale, l’idea della “filiera etica” tra Perù e Prato, fu naturale valorizzare questa esperienza nell’ambito dei corsi formativi confederali relativi ad un approccio sindacale e autentico alla responsabilità sociale di impresa e di territorio.
L’idea, l’intuizione che una “globalizzazione al ribasso” come quella con la quale sostanzialmente sempre è identificato il distretto tessile di Prato si ribalti in una di eccellenza qualitativa, sia per quel che riguarda il fattore del capitale umano che di quello delle materie prima è, già da sola, lungimirante e significativa.
Alcuni elementi di processo rispetto al progetto, come già individuati nel documento che ci è stato distribuito possono essere quello di non limitarsi, anche nella descrizione, al rispetto dei meri standard internazionali relativi alla tutela dei Diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, ma di compiere dei passi qualitativi in più, in un’ottica di ecologia sociale e di valorizzazione della promozione di una scelta di economia diversa. Anche l’idea di creare “catene umane del valore”, mi piace ribattezzarle così, è estremamente interessante, così come quella di coinvolgere imprese tessili cinesi radicate su Prato.
Questa triangolazione di luoghi e di senso può rappresentare il valore aggiunto decisivo del progetto: un’azione coraggiosa e non semplice, che si affianchi alla necessaria apertura al sindacato delle imprese tessili cino-pratesi.
Sappiamo come progetti simili, anche supportati dalla Regione Toscana e dal Ministero dello Sviluppo Economico, non abbiano raggiunto risultati soddisfacenti, ma l’idea di cooperazione sinergica transnazionale tra società civili e istituzioni locali, già alla base dell’esperienza delle Agenzie per la democrazia locale nei Balcani e nel Caucaso, di cui ho parlato precedentemente e di cui Michele Nardelli è stato tra gli ideatori, può costituire un precedente interessante, da cui imparare, almeno in parte.
Così come è necessario studiare i fallimenti rispetto ai progetti di valorizzazione qualitativa e di tutela del lavoro dignitoso nell’ambito territorio pratese per non ripercorrere strade che si sono rivelate impercorribili. Anche l’idea di coinvolgere la forte comunità peruviana toscana è molto interessante e coerente con l’approccio di cooperazione di comunità, un modo di costruzione di nuovi ponti nel tempo dei muri del risentimento e dello sfilacciamento dei frammenti.
Chiudo con il tema della formazione sindacale: in Perù, come a Prato. La formazione sindacale internazionale, come ci ha sempre insegnato Bruno Manghi è uno dei fattori costitutivi della Cisl, del Centro Studi di Firenze e, ovviamente dell’Iscos e dell’Anolf. Sono decine, se non centinaia le esperienze da cui trarre insegnamento, cito solo il progetto molto interessante e fuori dagli schemi di Iscos Marche ed Emilia Romagna nella filiera delle piante recise e delle rose in Etiopia e in Kenia.
Da questa esperienza sono stati tratti prima un dvd bellissimo: “Bianco Fiore Nero” e poi uno spettacolo teatrale: “In nome della rosa”, rappresentato sia al Centro Studi di Firenze che al mercato dei fiori di Pescia.
La formazione può essere molto importante per costruire coscienza e orizzonte di senso anche per i nostri delegati e sindacalisti “glo-cali”, a partire dalle loro esperienze su posti di lavoro internazionalizzati, in cui vivere l’altro e la propria catena del lavoro, non come competitor, ma come frammento di frammenti in relazione.
E’ molto importante innovare anche i linguaggi per raggiungere le persone, i giovani, i lavoratori e i delegati in un tempo non semplice e, in cui, molte illusioni, comprese, paradossalmente, quelle umanitarie, appaiono inesorabilmente in crisi. Ricordo una bellissima esperienza portata avanti dai Giovani Cisl di Prato nei primi anni duemila, un torneo di calcio multietnico promosso con Iscos e Anolf, con la sensibilizzazione al tema del lavoro minorile nella cucitura dei palloni. Hanno prodotto molto di più queste partite di calcio di numerosi convegni.
Concludo affrontando un ultimo punto. Anche nell’occasione citata un valore imprescindibile si è legato al rapporto con il sindacato locale, in questo caso il sindacato etiope. Non conosco nello specifico il sindacato peruviano, né quale tipo di collegamento vi sia o vi possa essere. Credo però che, nella nostra specificità, dobbiamo compiere uno sforzo in più in questo senso, senza dimenticare il rapporto con le Ong locali o le altre forme di associazionismo.
La cooperazione sindacale transnazionale è tale se vi è piena reciprocità e quindi se il sindacato è presente da entrambi i lati dell’Oceano. Abbiamo molto da imparare anche dai sindacati del c.d. “Sud del Mondo”, concetto peraltro ormai datato. Proprio per questo ci vuole tanto sindacato non autoreferenziale qui nei progetti dell’Iscos, così come dobbiamo sforzarci di incontrare e costruire una relazione duratura con i sindacati, spesso, ma non sempre, più deboli dell’America Latina, dell’Asia, dell’Africa. La formazione sindacale può fare molto, a volte in collegamento, come per l’Etiopia, con la ricerca, poiché è importante studiare i contesti economici e sociali in cui si sviluppano le nostre esperienze.
Abbiamo molto da costruire e da imparare da quello che è un incontro che può aiutarci a cambiare alcuni paradigmi sbagliati o superficiali che nascono anche dalla mancata conoscenza e relazione e dall’insostenibilità sia dei nostri stili di vita che del nostro fare sindacato. Si tratta di rimanere fedeli al nostro essere Cisl, immergendo i valori fondativi nel tempo presente. Un tempo che dobbiamo vivere con tutte le sue difficoltà, ma anche con tutte le sue numerose opportunità di rinascita generativa.
* Francesco Lauria, Centro Studi Nazionale Cisl – Istel