Per una politica della presenza nel presente
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10 Aprile 2020I ricercatori hanno raccolto i dati relativi ai livello di particolato in 3.000 contee americane (dove vive il 98% della popolazione degli Stati Uniti) dal 2000 al 2016 e li hanno confrontati con i decessi per Covid-19 registrati fino al 4 aprile scorso. Poi li hanno «aggiustati» (cioè ricalibrati) per togliere tutti gli elementi che potevano alterare i risultati statistici: densità di popolazione, status socioeconomico, percentuale di fumatori, tasso di obesità, variabili climatiche, livello di istruzione – che, come è noto, incide sullo stato di salute – , numero di tamponi per la positività al virus effettuati, disponibilità di letti negli ospedali (Dominici è nota per aver sviluppato un metodo di calcolo molto efficace nell’eliminare le interferenze statistiche). Così hanno trovato una associazione — che in statistica è un rapporto molto più stretto della semplice correlazione – tra inquinamento e pericolosità del nuovo coronavirus. «Se una persona vive per decenni in un luogo dove ci sono livelli alti di particolato ha una maggiore probabilità di sviluppare sintomi gravi – dice Dominici. È un risultato che non ha sorpreso chi studia gli effetti delle polveri sottili sulla salute. Sappiamo già che l’esposizione di lungo periodo al microparticolato causa infiammazioni ai polmoni e problemi cardiocircolatori. E sappiamo che le persone con problemi al sistema respiratorio e cardiocircolatorio contagiate da Covid-19 hanno un tasso di letalità più alto». L’impatto del particolato potrebbe spiegare in parte anche quello che è successo in Italia: «La Pianura padana è una delle zone più inquinate d’Europa e questo potrebbe avere avuto un ruolo anche nell’alto numero di vittime che si sono registrate in Lombardia» aggiunge Dominici.
Lo studio di Harvard non spiega (né intende farlo) gli effetti fisiologici e clinici dell’inquinamento sulla malattia. Ma può essere molto utile per chi deve organizzare la risposta sanitaria all’epidemia. «Ci dice che le zone più inquinate vedranno un numero maggiore di malati gravi, una volta che si diffonde il contagio – chiarisce Dominici. Quindi che lì le contromisure come il distanziamento fisico sono ancora più importanti. Ma anche che bisogna preparare le strutture mediche perché le persone infette svilupperanno sintomi più pesanti rispetto a quelle che hanno sempre respirato aria pulita».
Dominici e il suo team hanno reso pubblici i dati e persino il codice computazionale (qui) usato per realizzare lo studio, che è ancora in attesa di pubblicazione e quindi di revisione: «Lo abbiamo fatto affinché tutti possano analizzare i nostri dati e applicare la nostra analisi ai loro dati e ad altre regioni del mondo: è essenziale paragonare i risultati e avere la migliore informazione possibile per organizzare la risposta sanitaria all’epidemia. Noi continueremo ad aggiornare l’analisi man mano che aumenteranno i casi: purtroppo ci saranno molte altre vittime negli Usa».
* da www.corriere.it