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Corno d’Africa, cambiamo registro

E’ altresì legale, come scrive Aliotti dell’ufficio relazioni internazionali della CISL, che gli Stati Uniti, nonostante la contrapposizione con l’ex-blocco sovietico fosse ormai alle spalle, dal 1995 al 2010 abbiano incrementato costantemente il loro budget annuo destinato alle spese militari, passando da 279 a 698 miliardi di dollari (il 150% in più). A queste spese bisogna aggiungere altri 1.300 miliardi dichiarati dall’amministrazione Usa per i costi sostenuti – fino al 2010 – per le guerre in Afghanistan e Iraq.

Nonostante il debito pubblico negli Usa sia passato nello stesso periodo (1996-2010) da 4.900 a 14.294 miliardi di dollari, una cifra quasi corrispondente all’intero PIL, l’amministrazione Obama – finora – sul terreno delle spese militari ha rappresentato solo una leggera discontinuità. Nel 2011 e 2012 il budget è stato ridotto in minima parte rispetto al 2010. E pur profilandosi all’orizzonte nuove tasse sui consumi e tagli alla spesa sociale e sanitaria per abbattere il debito pubblico di 4.000 miliardi di dollari in dieci anni, per le spese militari si parla di una possibile riduzione di soli 400 miliardi di dollari nei prossimi quattro anni. Evidentemente, le grandi corporate produttrici di sistemi d’arma continuano a influenzare le politiche economiche e le scelte di bilancio Usa. Eppure basterebbe affiancare su un grafico l’andamento del debito pubblico negli Usa con quello delle spese militari dal 1995 al 2010, per accorgersi che le due curve pressoché coincidono, confermando il filo che lega il peso del complesso militare – industriale con la crisi dei debiti sovrani.

E che guerre e spese militari siano tra le cause strutturali della crisi economica e finanziaria, non riguarda solo gli Stati Uniti, ma anche  la piccola Grecia che, pur in bancarotta, ha continuato a destinare oltre dieci miliardi di dollari l’anno alle spese militari.

Oppure l’Italia che, con un debito pubblico di oltre 2.700 miliardi di dollari, e nonostante l’integrazione europea, continua a mantenere un modello di difesa nazionale con 190mila militari, di cui il 45% composto da ufficiali e sottufficiali. Negli ultimi dieci anni abbiamo speso in campo militare oltre 400 miliardi di dollari e, se non bastasse, partecipiamo a un programma per la realizzazione e l’acquisto di 131 cacciabombardieri F35, che c’è già costato oltre 2 miliardi e 700 milioni di dollari e che comporterà – ai prezzi attuali – un esborso di altri 20 miliardi di euro nei prossimi anni.

A queste spese dobbiamo sommare il finanziamento delle missioni militari all’estero. Ma l’ipocrisia istituzionale ascrive questi costi a "interventi di cooperazione allo sviluppo e a sostegno dei processi di pace e di stabilizzazione, nonché delle missioni internazionali delle forze armate e di polizia […]" pur sapendo che la componente civile delle missioni all’estero è solo dell’1,5% contro il 98,5% di quella militare.

Di fronte a tutto ciò crea sconcerto l’assenza nella politica, nell’economia – e nello stesso linguaggio – di parole come disarmo e pace. La preoccupazione principale di governo e opposizioni è quella di rassicurare la finanza sui rischi d’insolvenza del debito, mettendo le mani nelle tasche dei cittadini e tagliando il welfare e i servizi pubblici. Nessun accenno, invece, alla riduzione delle spese militari, cancellando costosissimi sistemi d’arma e riducendo le forze armate.

Non ci consola che sia un problema non solo italiano. Nel mondo, infatti, la spesa militare ha raggiunto la cifra esorbitante e preoccupante di 1.630 miliardi di dollari, con un incremento del 50% rispetto al 2001. Equivale a 236 dollari pro-capite, che per un miliardo di persone corrisponde al proprio reddito annuo.

Con questi numeri torniamo da dove eravamo partiti. Ad Habibo, la piccola somala che abbiamo lasciato nelle mani di alcuni volontari kenioti. Lei non sa nulla di deforestazione indiscriminata, acquisto terreni fertili da parte di multinazionali, spreco di risorse pubbliche sul militare e totale chiusura dei fondi delle cooperazione internazionale. Ed aspetta inerte. Come noi del resto.

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