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Chi vuole l’Agenda Monti

di Alessandro Branz

(13 ottobre 2012) Il dibattito che si è aperto all’interno del Partito Democratico attorno alla cosiddetta Agenda Monti e le perplessità che nascono dal vedere una parte rilevante del partito rinunciare per la prossima legislatura ad una prospettiva programmatica autonoma, richiamano due questioni di fondo che, al di là delle polemiche contingenti, ci permettono di affrontare l’argomento da una prospettiva più generale.

Innanzitutto va precisato che le posizioni di coloro che si affidano ad un Monti-bis o perlomeno ad un esecutivo che, pur a guida “democratica”, ne perpetui le scelte sinora effettuate sul terreno politico e sociale, non sono nuove. Esse in realtà, nonostante le apparenze, non si discostano dall’originario progetto di partito “a vocazione maggioritaria”, ma ne rappresentano una sorta di continuità. Infatti se è vero che quel progetto faceva leva sulle capacità espansive del partito e quindi l’attuale “rinuncia” da parte di taluni ad una posizione autonoma sembrerebbe disconoscere quella vocazione, in realtà si trattava di una prospettiva che vedeva nel partito non solo uno strumento per allargare al massimo le basi sociali del PD, ma anche qualcosa di estremamente “fluido” e “liquido”, al punto da andare oltre la classica contrapposizione destra/sinistra. Certo, la “vocazione maggioritaria” di allora significava anche un positivo richiamo all’orgoglio di partito, al gusto della scommessa, cui però fece da contrappunto la disillusione che proveniva da una sconfitta annunciata. Ma soprattutto dietro quell’operazione c’era -ieri come oggi- una certa idea di partito e l’inclinazione a collocare il PD nell’area moderata, o perlomeno a ridefinirne natura e identità. Per cui, se letta con questa chiave interpretativa, la proposizione dell’Agenda Monti, e con essa di un certo modo di vedere il rapporto tra risanamento, sviluppo e tutela del mondo del lavoro, trova una sua spiegazione più spiccatamente politica e sociale.

In secondo luogo, va detto che la soluzione Monti-bis non trova addentellati a livello europeo. Sia perché la versione italiana di “grande coalizione” non ha nulla a che spartire con gli esempi europei (e ciò per la mancanza in Italia di alcune caratteristiche fondamentali, ben declinate da Piero Ignazi). Sia perché a livello europeo, anche le eventuali politiche di stampo moderato -se poste in essere da forze della sinistra tradizionale- sono praticate comunque da parte di partiti che mantengono la loro identità di fondo. Ciò significa una cosa molto importante, che molti si ostinano a non capire: le politiche possono cambiare, ma i partiti restano. Quindi possiamo avere, ad esempio, il periodo Schröder orientato in una certa direzione, ma possiamo poi anche assistere ad un riposizionamento della SPD più a sinistra (sulla base di un confronto che è tuttora aperto). Così come in Gran Bretagna abbiamo assistito al passaggio da Blair, a Brown, all’attuale leader Ed Miliband, con un rinnovamento, a volte significativo, delle politiche e delle posizioni, pur nel contesto di una tradizione comune. Il che si può verificare perché il partito discute, si confronta al proprio interno, vede un naturale ricambio delle politiche e delle classi dirigenti. A condizione però che il partito sia tale: per cui, anche per queste ragioni, è a mio avviso preferibile un governo “politico” condotto da un esponente eminentemente “politico”, che cerca di contemperare responsabilmente esigenze magari difficili da conciliare, ma mantenendo vivi alcuni principi di riferimento, che non un governo “tecnico” e non politico, certamente efficace ma privo di visione riformatrice. E questo perché vedo nel governo politico e “di partito” maggiori garanzie democratiche di cambiamento.

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