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«La maledizione di vivere tempi interessanti» (127)

di Michele Nardelli

(16 ottobre 2022) Devo riconoscere che fa un certo effetto. Prendere atto che l’Italia fra qualche giorno sarà governata da Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia, il partito che mostra orgogliosamente nel suo simbolo come nel suo gruppo dirigente la continuità con il Movimento Sociale Italiano di Giorgio Almirante e con il fascismo italiano, per quanto fosse scontata la vittoria della coalizione di centrodestra, non è affatto agevole.

La Repubblica Italiana nata dalla Resistenza conserva, certo, la sua Costituzione, ma con il voto del 25 settembre 2022 non è più la stessa. O, meglio, è quella di prima ma senza veli. Con una maggioranza – quand’anche relativa – degli aventi diritto al voto che ha scelto di votare consapevolmente per uno schieramento ed un partito che esprime come proprio programma il moto del fascismo: Dio, Patria, Famiglia. Ovvero l’idea che venga meno lo Stato di diritto, per cui – contraddicendo l’articolo 3 della Costituzione Italiana, si è cittadini “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. E con le massime cariche del Parlamento in mano a personaggi come Ignazio Benito Maria La Russa, il vecchio fascista che si deve sdoganare, e Lorenzo Fontana, la destra moderna ancorché più pericolosa.

Non ci si sbaglia a votare, qui come in Ungheria o in Polonia, negli Stati Uniti o in Brasile dove il presidente Bolsonaro, nonostante i disastri sociali, sanitari ed ambientali, continua a mantenere un consenso superiore al 40% che – se armato come si è armato nel corso di quella presidenza – può diventare eversivo. Il voto esprime sempre lo spirito del tempo, un paese e le sue inclinazioni insieme culturali prima ancora che politiche. Aggravato nel caso italiano da una legge elettorale insopportabile, che pure è l’esito di quella cultura maggioritaria e centralista che ha devastato per almeno trent’anni e in maniera trasversale lo scenario politico di questo paese. O forse ci siamo scordati dei referendum popolari sul maggioritario del 1991 e del 1993, approvati rispettivamente con percentuali del 95% e dell’83%?

No, non è agevole. Ancor prima del responso delle urne, si rifletteva su quali avrebbero dovuto essere le linee di lavoro per ricomporre un mosaico di pensiero, un tessuto sociale e un disegno politico alternativi a quello che il voto ci avrebbe consegnato per cinque lunghi anni. Anni che, per le sfide planetarie che si addensano, risulteranno se non decisivi sicuramente cruciali. Il voto e quel che ne è seguito, anche nel centrosinistra, non fanno che confermare che di agevole non ci sarà proprio nulla. E che se non ci si dispone ad imparare, le lezioni non servono a nulla. Il contesto poi, non aiuta. Crisi che s’intrecciano, guerre che lacerano e incombono.

Pensiero, società e progetto politico, dicevamo. E’ evidente che non basta un congresso, occorre molto di più. Non riguarda nemmeno un solo partito: la ricostruzione di un blocco sociale investe la società, un tessuto esteso che coinvolge associazioni, sindacati, mondo del lavoro, volontariato. E soprattutto quella parte della società – i giovani – per la quale è in gioco il futuro ma che oggi appare estranea tanto ai vecchi corpi intermedi come a larga parte di una società civile sempre più autoreferenziale.

Un lavoro improbo perché si tratta di un’esigenza che, nel dibattito pubblico come del resto nel sentire comune, nemmeno viene avvertita. Piuttosto che indagare le cause profonde e i paradigmi che ci hanno portati sin qui, si preferiscono le rese dei conti. Ci si affida ancora una volta alla ricerca di nuovi leader, in fondo non tanto diversi da quelli precedenti, invece di interrogarsi su categorie interpretative incapaci di leggere questo tempo e su paradigmi che sono all’origine del deragliamento. Il concetto di “progresso”, tanto per cominciare. Non capendo che gran parte dei nodi venuti al pettine abitano proprio qui, nell’idea dell’illimitatezza delle risorse che ha segnato la modernità. Sentir parlare ancora di “campo progressista” significa che il tema (questo sì cruciale) del limite continua a non avere cittadinanza.

Questa stessa esigenza di ricomposizione di un tessuto insieme culturale, sociale e politico – avvertendo per tempo quel che sarebbe accaduto nell’ottobre del 2018 – l’avevo posta e non da solo ben prima del voto che segnò la conclusione dell’anomalia trentina. Epilogo riconducibile non ad un difetto di comunicazione o all’incerta collocazione del Partito autonomista trentino tirolese, bensì allo sfarinamento delle condizioni che avevano resa possibile quell’anomalia nel panorama politico del nord, proprio quel tessuto che richiedeva di essere nutrito di nuove ragioni e che invece si è fatto fagocitare dallo spirito del tempo, dal dirigismo del leader solo al comando nonché dalle comodità di un’autonomia senza conflitto.

Se guardiamo alle elezioni del 2023 in Trentino sarebbe importante increspare lo stagno. Lasciare che le cose procedano come stanno andando, nella speranza che il vento cambi direzione non porterà che a reiterare la sconfitta. Ne abbiamo avuta un’anticipazione nelle elezioni per il Parlamento.

Ritessere la trama fatta di idee e ragioni profonde, territori e biodiversità, proprietà collettive e risorse comunitarie, connessioni e interdipendenze, ambiti di ricerca e luoghi appropriati di educazione permanente… è comunque più che mai necessario. Richiede tempo e ascolto, pazienza e fantasia.

Cerco di tenermi lontano dai luoghi intossicati. Lo sto facendo da qualche anno ormai, senza rinunciare all’impegno politico, inteso come ricerca, riflessione e formazione. Nella convinzione che osservare i segni del tempo, scrivere un libro e farne un’opportunità di confronto collettivo, realizzare un viaggio o un percorso formativo, possano non soltanto far bene ma rappresentare forme diverse per una politica scettica sul potere. L’effetto è che qualcuno, incontrandoti, ti chieda dove sei finito, come se la rappresentazione fosse più importante della realtà. Il fatto è che il veleno si è diffuso.

Mi scrivono gli amici di Città del Messico: “Che cosa è avvenuto in Italia perché questa destra estrema abbia potuto vincere?”. La deriva è pericolosa. Guardarsi da fuori, darsi una distanza, è un esercizio utile e necessario per dare significato alle cose che accadono. Per mettere a fuoco quel che, nella polvere mediatica e nella routine, ci appare sfumato o non cogliamo affatto. Dovremmo fermarci, anche solo per un attimo. Anche nel gergo fotografico si dice fermare lo scatto. L’elaborazione del conflitto (o del passato, non fa differenza) comincia da qui. Non si parte mai da zero, certo. Ma c’è un momento in cui accade qualcosa, come l’introduzione dello zero arabo1 in matematica, che cambia il corso della storia. Fra il non più e il non ancora, andavamo dicendo.

Scrive Hannah Arendt: «… quello strano interregno che si produce talvolta nel corso della storia, quando non soltanto gli ultimi storiografi, ma anche gli attori e i testimoni, i viventi stessi, diventano consci di vivere un tempo completamente determinato dalle cose che non sono più e da quelle che non sono ancora. La storia ha mostrato più di una volta che in questi intervalli può trovarsi il momento della verità»2.

Noi siamo qui, ma il tempo non è galantuomo. Averne coscienza è importante, quanto cambiare i vecchi paradigmi.

1Sifr, lo zero arabo: così abbiamo chiamato il blog che racconta il “viaggio nella solitudine della politica” (www.zerosifr.eu)

2Hannah Arendt, Tra passato e futuro. Garzanti, 1991

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