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“La maledizione di vivere tempi interessanti‘ (27)

di Michele Nardelli

(12 ottobre 2015) La discussione che in questi mesi ha coinvolto e diviso la politica italiana attorno al progetto di riforma costituzionale non mi ha affatto appassionato. Non ho condiviso l’idea che questa rappresentasse l’architrave delle riforme per fare uscire il paese dalla crisi politica in cui versa, non ritengo affatto che il bicameralismo perfetto sia stato di ostacolo alla governabilità, né che il numero dei parlamentari rappresentasse un particolare problema. Come non ho condiviso l’idea che in gioco ci fosse l’assetto democratico di questo paese, almeno per ciò che ne rimane nel tempo dell’interdipendenza e di sovranità sempre più limitate.

La mia opinione è che tutto questo abbia più a che fare con l’ondata populistica alla quale la politica tende ad allinearsi e alla deriva in senso plebiscitario che ne viene. In questa direzione, del resto, sono andate le varie riforme elettorali che il paese si è dato dalla fine della prima repubblica ad oggi. Ritengo altresì che mettere mano alla Costituzione Italiana sia affare molto delicato perché ogni carta fondamentale ha una propria struttura che non può essere emendata qua e là senza il rischio di determinare uno scasso istituzionale come è accaduto nel corso degli ultimi decenni nell’introduzione di elementi di natura maggioritaria in un contesto fondato sul proporzionalismo. Farlo è legittimo ma richiederebbe prudenza oppure una vera e propria nuova fase costituente.

Detto questo, ritengo particolarmente preoccupante l’ondata neo-centralistica che accompagna la riforma che il Parlamento si appresta a varare. La controriforma del Titolo V della Costituzione (come in precedenza l’abolizione delle Province) va infatti nella direzione opposta al percorso di riforma in senso federalistico dello stato italiano. Riforma zoppicante fin che si vuole, che avrebbe richiesto un cambiamento culturale profondo che non c’è stato ed una più diffusa capacità (e responsabilità) di autogoverno, ma che rappresentava l’avvio di un percorso oltre il vecchio regionalismo della seconda metà del secolo scorso. E non può che apparire paradossale che mentre si sta varando il Senato delle Regioni, contemporaneamente si svuotino i poteri locali. Evidentemente la riforma del Senato con l’attenzione verso i territori e il federalismo europeo non c’entra un fico secco.

Ne è una testimonianza l’atto politico forse più emblematico, al di là degli effetti concreti che ne verranno, del dibattito sulla riforma costituzionale è stato l’accoglimento da parte del Governo di un ordine del giorno presentato da Raffaele Ranucci (PD) che impegna il governo a prendere in considerazione prima dell’entrata in vigore della riforma, “l’opportunità di proporre attraverso una speciale procedura di revisione costituzionale, la riduzione delle Regioni”. In un suo precedente Disegno di Legge, presentato a dicembre del 2014 insieme al deputato romano PD Roberto Morassut, Ranucci prevedeva la riduzione delle Regioni italiane da 20 a 12. Non so quanto questa fosse una proposta del PD o solo di due suoi parlamentari, ma di certo si tratta di una proposta che definire folle è una gentilezza. Per la cronaca, in questa cornice, il Trentino e il Sud Tirolo verrebbero a far parte della Regione Triveneto (vedi la nuova cartina dell’Italia presentata da questi geni della politica italiana). Solo degli irresponsabili possono pensare di mettere mano alle autonomie (oltretutto esito di un ancoraggio internazionale come nel caso della questione sudtirolese) in questo modo.

Il fatto è che l’ordine del giorno accolto dal Governo la scorsa settimana testimonia di quale sia la cultura politica non solo di una maggioranza trasversale dei parlamentari, ma anche di un’opinione pubblica che ritiene invisa ormai ogni articolazione istituzionale. Che il Parlamento assecondi tutto questo è segno dei tempi.

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