Divagazioni ferragostane
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di Michele Nardelli
L’assemblea generale della CGIL si è espressa per il No al referendum sulla riforma costituzionale. Essendo io propenso ad un giudizio negativo sulla riforma dovrei ricavarne un motivo di conforto, ma non è così.
Leggendo infatti il documento approvato nei giorni scorsi (e che potete trovare in allegato) emerge un approccio culturale di stampo centralistico non nuovo per la verità alla cultura maggioritaria di una sinistra ancorata a chiavi di lettura e paradigmi novecenteschi che nei fatti impediscono l’aprirsi ai nuovi scenari che segnano il nostro presente.
E tuttavia testimonia di un vistoso passo indietro dei corpi sociali rispetto alla grande sfida che la riforma costituzionale del 2001 si prefiggeva nel promuovere quel contesto di partecipazione diffusa e responsabile che quote progressive di autogoverno presupponevano e richiedevano, giudicandola eccessivamente sbilanciata verso i poteri locali.
Il documento approvato recita infatti: “Pur condividendo l’intenzione di cambiare l’equilibrio dei poteri tra Regioni e Stato, definito dalla modifica costituzionale del titolo V nel 2001, l’esito finale è sbagliato: si passa da un eccesso di materie concorrenti ad una riduzione drastica della facoltà legislativa autonoma delle Regioni‘.
Fa oltremodo riflettere come nel dibattito interno della Cgil questa sia stata considerata un’apertura in senso federalista. Se questo è l’approccio di chi è per il no al referendum, possiamo immaginare quel che passa per la testa di chi – esprimendosi a favore della riforma Boschi – ritiene che il Governo centrale debba riprendersi la piena potestà legislativa su quelle competenze che – se rapportate ad esempio ad un’autonomia pressoché integrale come quella trentina – erano in realtà ben poca cosa.
La riforma del 2001 rappresentava infatti solo l’avvio di un processo di ridislocazione dei poteri verso il basso sulla base di un assunto generale secondo il quale “La repubblica è costituita dai comuni, dalle province, dalle città metropolitane, delle regioni e dallo stato‘. Questo significava che lo stato era titolare di legislazione esclusiva solo per le materie indicate nell’articolo 117 della Costituzione, mentre su tutto il resto era titolare di legislazione concorrente, limitandosi in questo alla definizione dei principi fondamentali.
Nell’arco di pochi anni è cambiato il vento, le province sono state abolite, i comuni – cui sono state tagliate le entrate dirette – annaspano, non si è data applicazione a quella parte di riforma che prevedeva il federalismo fiscale, ed ora il colpo di grazia alle regioni avocando allo stato tutte le materie considerate di “valenza strategica“.
Come sia stato possibile che nell’arco di quindici anni sia avvenuto un tale capovolgimento credo debba essere materia di attenta riflessione.
Il dato di fatto è che con il pretesto del malaffare diffuso (e di una classe dirigente locale spesso di pessimo profilo) è montata una campagna di delegittimazione delle regioni che in buona sostanza ha preparato il terreno per una controriforma di stampo centralistico forse senza precedenti dal secondo dopoguerra ad oggi. Che ha fatto breccia in un sentire diffuso fatto di populismo e di antipolitica. tanto da ridurre la riforma del titolo V ad un problema di semplificazione.
Argomento principe per accrescere il potere dell’esecutivo e ridurre il legislativo (ma a guardar bene la separazione dei poteri ed il ruolo dei corpi intermedi) a vera e propria comparsa nel rapporto di tipo plebiscitario fra il capo e il popolo. Una tendenza che ha nella cultura maggioritaria il proprio brodo di coltura, riducendo il valore della politica a chi prende un voto in più dell’altro.
In un contesto dove ormai tutto è sovranazionale e territoriale, la vera conservazione è attardarsi nella dimensione nazionale. Il problema è che questo lo pensano in molti, trasversalmente ad entrambi gli schieramenti referendari.