Stranieri residenti
Donatella Di Cesare
Stranieri residenti
Bollati Boringhieri, 2017
L’approccio alle migrazioni di Donatella Di Cesare alla prova dell’Italia del rancore
(12 febbraio 2018) Parlare di immigrazione a pochi giorni dall’attacco di matrice razzista di Macerata rischia di far prendere a ogni considerazione una deriva retorica che allontana dalla piena comprensione di ciò che sta accadendo. Ecco perché, iniziando a raccontare la conversazione con Donatella Di Cesare a proposito del suo ultimo libro “Stranieri residenti” (2017, Bollati Boringhieri), faccio riferimento ad alcune riflessioni che – rovistando nel marasma non proprio edificante dell’informazione e nel profondo degli abissi del web – aiutano a orientarsi dentro il tempo che stiamo vivendo e ci impongono un punto di vista più articolato rispetto a temi e fenomeni che non toccano incidentalmente le nostre vite ma ne fanno parte – non da ieri, non in forma emergenziale – e ne faranno parte ancora per lungo tempo, mettendoci alla prova. Questioni decisive – la relazione con l’altro, la giustizia sociale, il rapporto ambiguo con l’identità e la debolezza dello Stato Nazione – perché potenzialmente fondative di un modo diverso di addentrarci nel futuro.
Proprio Donatella Di Cesare descrive in maniera molto precisa e netta la situazione italiana nel suo editoriale ospitato dal Corriere della Sera domenica 4 dicembre, invitando a innalzare la soglia di attenzione. Il fatto che il fascismo da detestabile ideologia – propellente ad uso e consumo di parti un tempo ultraminoritarie e marginali della società – si sia trasformato in sentimento diffuso e penetrante, in linguaggio riconosciuto, accettato e utilizzato senza pudore in pubblico (tanto in contesti virtuali che fisici), deve farci interrogare profondamente. Si tratta di odio che trova sfogo dove il rancore si fa più appuntito e dove la nemicità nei confronti dell’immigrato, percepito come colpevole di ogni malefatta e concreta minaccia al proprio non negoziabile benessere, da eccezione si trasforma in normalità, da caso isolato diventa senso comune. Passioni tristi, negative (non solo in termini di giudizio ma di effetto sulla società tutta) che vengono giustificate, alimentate e mobilitate da un ciclo di propaganda politica tanto irresponsabile quanto efficace e munite di megafono da una parte non secondaria dell’informazione, anche mainstream. Una “banalità del male” che esonda in forme spurie contaminando le comunità e coinvolgendo quelli che in questi giorni vengono banalmente definiti “cittadini comuni”, le forme di opposizione non possono essere esclusivamente quelle che fino ad oggi sono state – più o meno intensamente – messe in campo ma devono darsi obiettivi più ampi e generalizzati.
Christian Raimo e Fabio Chiusi sono i commentatori che più hanno centrato il punto. A fronte della gravità della situazione – preoccupante per la diffusione e la normalizzazione del sentimento appena descritto ancor più che per il fatto di cronaca in sé – a impressionare è l’incapacità della politica, delle soggettività sociali e culturali di mettere in campo immaginari adeguati per far fronte a tale imbarbarimento. Un imbarbarimento che impatta frontalmente sull’immigrazione (perché nervo più scoperto e facile da solleticare) ma che – a guardar bene – pervade ogni altro ambito della nostra vita, che di rabbia e comportamenti violenti è satura.
«Il paesaggio è già sconfortante visto così, ma è ancora più nero se si allarga il quadro. La verità più disarmante che viene da questa vicenda è che nessuno di questi politici, leader nazionali, dall’estrema destra alla sinistra, sa, saprebbe, vuole contrapporre all’idea di società che ha il terrorista Traini un’alternativa convincente. Il massimo che viene opposto è: una società con più controllo, con più sicurezza. Lo stesso Traini paradossalmente non scuoterebbe il capo.
Non si può però negare che la sua idea di mondo è più persuasiva, addirittura più seducente, pur nella sua distorsione paranoica: siamo immersi nella Paura, di fronte alla quale possiamo solo proteggerci avvolti con una bandiera dell’Italia, vittime e martiri di questa Grande Paura come i caduti del monumento accanto al quale, alla fine della tentata strage, l’hanno trovato le forze dell’ordine che l’hanno arrestato. Se nessun politico si sforza di trovare un orizzonte diverso a quello che indica Traini, è chiaro che sarà lui, il suo incubo paranoico a vincere – a mani basse – le prossime elezioni».
Una situazione che non nasce e non si esaurisce in queste settimane. “Gorgo. In fondo alla paura” di Gianfranco Bettin raccontava l’Italia di dieci anni fa, ma le premesse da cui muoveva – tra fatti di cronaca nerissima e impatto sul clima politico e sociale – non erano poi molto diverse. Proviamo a capirci. Un conto è affrontare gruppi politici omogenei che si definiscono fascisti e si riconoscono come tali – Casa Pound e affini – con gli strumenti costituzionali (deboli) o della lotta politica (buoni fino ad un certo punto per costruire argini sufficientemente saldi). Azione senza dubbio necessaria – anche nelle piazze che vengono maldestramente e colpevolmente negate in queste ore – ma che a ben vedere fa riferimento a un solo corno del problema. Quello più riconoscibile e meno sfuggente. Altro è avere a che fare con pezzi interi di comunità che – subita una lenta e pericolosa mutazione antropologica – si sentono parte di un globalizzato e imbastardito “mondo dei vinti”, per usare l’efficace formula di Nuto Revelli adattandola ai giorni nostri. Una platea di cittadini e cittadine che non trovano nessuna prospettiva migliore rispetto a quella di dare per buona l’ipotesi dello “scontro di civiltà”, di gridare all’unisono all'”invasione” e al pericolo di una “sostituzione etnica” imminente e definitiva. Un variegato caleidoscopio di arrabbiati che Edoardo Bianchi racconta con dovizia di particolari nel libro/inchiesta “La gente” (Minimum Fax, 2017). L’apparente spoliticizzazione della cultura fascista e razzista, tutt’altro che compresso dentro le varie – non poche – sigle di una galassia comunque in espansione, è in realtà la forma più estrema di sua nuova e pulviscolare politicizzazione e il tratto più potente di uno scivolamento a destra che pulsa dentro il coinvolgimento di biografie tutt’altro che schierate o descrivibili come tali.
Va trovato – e sta qui la difficoltà di mettere in campo le giuste strategie – un punto di cesura allo sfasamento temporale che da un lato vive e si carica della frenesia della cronaca quotidiana, sedimentando a getto continuo odio e frustrazione e dall’altro imporrebbe invece di rendere comprensibili scenari di lungo periodo che ci chiedono (perché sarà così, inutile negarlo) riflessioni che prendono in considerazione cambiamenti epocali e non lineari, metamorfosi non indolori per chi – noi occidentali, per utilizzare una categoria comprensibile nella sua inadeguatezza – da per scontato che la propria condizione di vita (economica, sociale e culturale) non possa e non debba essere messa in discussione. Non sarà così ed é bene che cominciamo a fare i conti con questa prospettiva.
E’ in questa direzione che Donatella Di Cesare si muove rivendicando una visione – culturalmente anarchica, filosoficamente e politicamente antisovranista – che in rapida successione sfida l’idea della società liquida («la globalizzazione è tutt’altro che liquida, piena com’è di faglie e di fratture oltre che di resistenze»), dell’origine naturale dello Stato Nazione («un concetto politico, basato sull’idea sostenuta anche a sinistra che la gestione del welfare non possa che avvenire dentro i confini nazionali») e della capacità innovativa della prospettiva Europea («è venuta meno la speranza che rappresentasse un’alternativa agli Stati nazionali»).
Un lavoro potente ed estremamente lucido che esercita il necessario disinnesco di un vocabolario sovranista che torna a far capolino nelle campagne elettorali, non solo da destra. Di Cesare mette mano a termini come patria, nazione, sovranità, confini, cittadinanza, identità, razza descrivendo per ognuno di essi l’infondatezza e la pericolosità. Serve un nuovo vocabolario come strumento per mettere un piede dopo l’altro nel nostro cammino di cambiamento, senza correre il rischio di inciampare in nostalgie filosofiche e politiche.
Questo esercizio rappresenta la premessa fondamentale per mettere in dubbio la teoria statocentrica che fatichiamo ad abbandonare e che sul tema dell’immigrazione ha ricadute, filosofiche e materiali, evidenti. Per lo Stato il migrante é «l’intruso, colui che si è intrufolato nel mio salotto». Sempre per lo Stato l’esclusione del migrante è legittima perché centrale è «proteggere l’autodeterminazione dei popoli, la coesione della comunità, la proprietà territoriale che lo Stato riporta a sé». Se la cittadinanza (sotto il cappello dello Stato) è la normalità migrare non può che «essere un’anomalia, una forma insopportabile di devianza».
In “Straniero residente” sotto accusa é il ruolo della politica intesa come governance (niente più della gestione dell’esistente), depurata da ogni sua ipotesi progettuale, visionaria e ideale. Una politica che di fronte a un processo di portata planetaria – tali sono oggi le migrazioni – si accontenta di seguire la strada della razionalità e della concretezza, affermando che il proprio ruolo è quella di gestire e non di offrire un’alternativa. Contabilizza gli arrivi e ragiona di come, a tutti i costi, controllare i flussi futuri tenendoli a distanza. Costruisce categorie (profugo, migrante economico, migrante ecologico) utili a dividere i meritevoli di poter migrare da quelli che – a nostro insindacabile giudizio, ovviamente – ne ne possiedono il diritto. E’ dentro questo scenario che prende corpo la legittimazione al pensiero respingente e di base razzista che molti oggi non hanno problemi a esprimere pubblicamente. «Io con quelli non voglio abitare» è il mantra.
Di Cesare non punta a rivedere in termini migliorativi le coordinate di un dibattito claustrofobico e ridondante, incapace di superare i confini che si è costruito attorno. Rifiuta di scegliere tra le rivendicazioni sovraniste del “prima noi”, il pragmatismo cinico dei Ministri (il modello che accomuna Maroni e Minniti, per essere chiari) e l’accoglienza condizionata a processi di integrazione o assimilazione, intesa come obbligo morale/etico/religiosa e non politico e comunque contraddistinta da “un rapporto squilibrato di potere” tra chi può decidere di accogliere e chi potrebbe – solo a determinate condizioni – essere ospitato, ovviamente in maniera temporanea e subalterna alla comunità ospitante. La posizione scelta è volutamente scomoda. Radicale perché rifiuta di riportare tutto al realismo e all’opportunità. L’unica possibile perché necessaria a darsi i punti di partenza per l’organizzazione di una possibile “filosofia della migrazione” che ambisca a progettare il mondo come luogo dell’incontro e del riconoscimento reciproco e non dell’esclusione e del razzismo.
Lo ius migrandi (non solo inteso come diritto di movimento con alla base l’apertura dei confini ma come più ampia rappresentazione di un modello planetario di giustizia sociale e cittadinanza plurale e multiforme) e l’attitudine al co-abitare (come pratica di accoglienza aperta, costante e paritaria, figlia del prendersi cura vicendevolmente, del riconoscere e lasciar spazio all’altro dentro comunità ospitali e dialoganti) sono gli strumenti che il libro propone, non scordando che quello che oggi è richiesto non è un intervento parziale su uno specifico tema – in questo caso l’immigrazione – ma una trasformazione complessiva dei modelli economici e sociali (incentrati su capitalismo e neo-liberismo) che costituiscono il fragile e non più sostenibile status quo occidentale.
Lo “straniero residente” è da questo punto di vista figura rivoluzionaria, pur non priva delle stesse contraddizioni che la modernità ha spalmato ad ogni latitudine del pianeta. E’ “la schiuma della terra” come la definiva Hannah Arendt che ci suggerisce l’immaginario cooperativo e mutualistico cui dobbiamo tornare a dare forma, dopo averlo disgregato in favore di un individualismo egoista e distruttivo. Faremmo bene a mettere al centro delle nostre riflessioni il potenziale sovversivo dell’azione del migrare e trasformarlo in motivazione stringente per cambiare il mondo che con quella stessa umanità migrante (di cui siamo inevitabilmente parte, noi stessi in movimento e mai proprietari delle terra che calpestiamo) condividiamo e condivideremo.
Federico Zappini
(da Ponti di vista)