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Afghanistan, il dolore e la riflessione

Che ci colpisce forse più da vicino perché le vittime sono sei giovani italiani, ma non per questo diverse dai numerosi morti fra la popolazione civile in questo attentato come nella guerra in corso in quel martoriato paese, stretto fra la morsa di un terrorismo che non esita nemmeno di fronte alla vita di bambini inermi e di un’occupazione militare che – al di là delle intenzioni – non ha portato la pace, né ha sconfitto il terrorismo.

Nei soli primi cinque mesi del 2009 sono morti in Afghanistan non meno di 800 civili, il 24% in più nello stesso periodo dello scorso anno. E da maggio, con l’approssimarsi delle elezioni svoltesi nel mese di agosto, è stata una escalation impressionante di attentati e bombardamenti che hanno mietuto vittime soprattutto fra la popolazione civile. I rapporti delle Nazioni Unite indicano che il 55% delle morti sono da attribuire alla responsabilità dei Talebani e il 33% alle forze di sicurezza afgane e internazionali.

Così sono le "nuove guerre": soldati che muoiono in nome di una causa pensata nobile, civili inermi ammazzati nelle loro case bombardate come possibili obiettivi sensibili o colpevoli di trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato, interessi strategici di grandi potenze, neofeudatari nei panni di signori della guerra, traffici criminali di ogni tipo, storie da cancellare tanto che fra gli obiettivi delle distruzioni sempre più spesso ci sono le biblioteche e i musei nazionali, città assediate perché simbolo di cosmopolitismi e meticciati che si vorrebbe cancellare.

Anche quella che si combatte in Afghanistan dal 2001 è una "nuova guerra", dove ritroviamo tutti questi aspetti in un mix accresciuto dalle caratteristiche di una terra ostile ad ogni forma di occupazione e dove gli occupanti si sono incagliati, compresi gli eserciti più agguerriti del mondo.

Immagino che in queste ore si riaprirà il confronto sul ritiro del contingente militare italiano. Che questo avvenga in seguito alla morte di questi giovani ragazzi ci racconta di una politica sempre più ridotta ad inseguire gli avvenimenti. Ciò nonostante, è bene che se ne discuta. Per mettere da parte l’ipocrisia di un corpo di pace sbattuto in un campo di battaglia che non conosce regole. Per compiere un doveroso bilancio di questi anni, per descrivere la realtà di un paese oggi più lacerato di ieri, come le stesse elezioni hanno mostrato. E per definire una "strategia di uscita", nella responsabilità che ci viene dal non lasciare di punto in bianco un paese al proprio destino dopo averci messo mano in modo maldestro. Del resto, ci stanno pensando anche alla Casa Bianca, perché mai non dovremo ragionarci in Italia?

Ma l’exit strategy, paradossalmente, non comporta meno ma più impegno. Certo solo in piccola parte militare, mettendo in campo una straordinaria mobilitazione civile per la ricostruzione di un paese profondamente segnato da mezzo secolo di guerra praticamente senza soluzione di continuità, dando vita ad un processo di riconciliazione in grado di far dialogare tutte le parti, anche quelle più ostili alla coalizione internazionale, senza le quali non ci sarà vera pace. Una scelta costosa, dura e difficile, ma ineludibile, se vogliamo che il paese degli albicocchi possa un giorno tornare a sorridere e ad accogliere quanti vorranno, in pace, ripercorrere le vie della seta.

Michele Nardelli

presidente del Forum trentino per la Pace e i Diritti Umani

 

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