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Adriatico, un mare oltre le nazioni

di Michele Nardelli

Nei materiali preparatori di questo incontro più volte si sono evocati le parole e lo sguardo di Predrag Matvejević, forse il più grande narratore vivente del Mediterraneo ma anche un caro amico con il quale abbiamo condiviso pensieri, speranze e timori verso l’Europa di mezzo. Nella sua nota alle opere di Ivo Andrić, Predrag ricordava – riprendendo una celebre frase di Churchill – come “i Balcani avessero prodotto più storia di quanta ne potessero consumare‘1. E ciò nonostante, il nostro sguardo su questo cuore europeo continua ad essere distratto.

Anche in occasione delle celebrazioni del centenario dello scoppio della prima guerra mondiale, dove pure si è ricordato l’eccidio del 28 giugno 1914 e con esso la figura di Gavrilo Prinzip, ben poco si è riflettuto su un secolo – il Novecento – che, a guardar bene, nasce e muore a Sarajevo.

Con il mare Adriatico l’Italia può vantare migliaia di chilometri di prossimità verso i Balcani, ma verso l’altra sponda del mare permane un atteggiamento distaccato, una distanza che va ben oltre quei sessanta chilometri che separano Otranto da Valona. La ragione di questa distanza è complessa e non credo sia questa la sede per addentrarci nelle molteplici risposte che ne potrebbero venire. Preferisco rovesciare la questione nell’affermare come la costruzione della Macro-regione Adriatico Ionica potrebbe rappresentare una straordinaria occasione per ridurre questa distanza.

Abbiamo due buoni motivi per farlo, dei quali vi voglio parlare nei pochi minuti a mia disposizione. Il primo riguarda ciò che i Balcani rappresentano nella comprensione del nostro tempo. Il secondo, le grandi opportunità che possono venire dalla relazione con un territorio ricco di storia, cultura, risorse e biodiversità.

Una sfera di cristallo sulla postmodernità

Che cosa abbiamo compreso ed imparato da quanto è accaduto in questa parte d’Europa negli anni ’90 del secolo scorso? L’elenco delle sciocchezze e dei luoghi comuni sarebbe interminabile. Quando invece i Balcani sono stati una sfera di cristallo sulla postmodernità. Sì, un laboratorio del moderno.

Lo sono stati sul piano della deregolazione. Perché la guerra è il contesto di massima deregolazione e perché anche laddove la guerra non c’è stata lì si è sperimentato l’intreccio fra vecchi apparati e nuove mafie che ha segnato la transizione al turbocapitalismo.

Lo sono stati nella nascita di una costellazione di nuovi stati offshore che vanno dall’Adriatico al Caucaso, veri e propri territori senza regole funzionali all’attività di riciclaggio e di ogni sorta di traffico illegale.

Proprio il rapporto fra economia e criminalità è un altro degli ambiti di sperimentazione della postmodernità, come è stato ben raccontato nel Dossier sull’alleanza fra la cosiddetta “Quarta mafia“ (la Sacra Corona Unita) e la ’ndrangheta da una parte e le mafie montenegrina, serba e russa dall’altra.

Per non parlare della delocalizzazione delle imprese da parte di quel capitalismo molecolare del nord est italiano e non solo, che per anni ha beneficiato di condizioni di dumpig estremo in Romania ma anche in Albania e in Serbia, come la più recente vicenda della Omsa a Kragujevac sta a dimostrare.

Lo sono stati anche sul piano della comprensione dei processi culturali e del moderno spaesamento. Penso alle curve degli stadi come luoghi di reclutamento da parte del crimine organizzato o a luoghi emblematici come la balkanska krčma, le locande dove gli umori diventano rancore ed il rancore diventa progetto politico.

E tanto altro, che ancora fatichiamo a mettere a fuoco e che molto ha a che vedere con l’insidia di un pretestuoso scontro di civiltà e di un disegno antieuropeista che oggi attraversa tutto il vecchio continente.

Oltre gli aiuti, la diplomzia dei territori

E’ vero, dopo la caduta del muro e di fronte alla tragedia jugoslava, soprattutto per iniziativa della società civile e degli enti locali, si è costruito uno straordinario ponte fatto di solidarietà e di sostegno alla ricostruzione. Una mobilitazione di energie vitali senza precedenti che ha percorso l’Adriatico e le strade spesso impraticabili nella guerra e nel dopoguerra. Ma avremmo dovuto avere più attenzione ai messaggi che i Balcani ci inviavano oltre le emergenze e che ci avrebbero aiutato a capire quel che stava avvenendo nella nostra Europa, in Italia, nel nostro tessuto sociale e civile. Evitando di cadere nella “banalità del bene“.

Avremmo forse prestato più attenzione all’importanza di incrociare gli sguardi, al disegno inclusivo che l’Europa avrebbe potuto esprimere come al riverberarsi sui nostri territori di ciò che accadeva dall’altra parte del mare Adriatico, nel camaleontismo dei signori della guerra, nei processi di accumulazione di capitali criminali che dopo qualche anno abbiamo iniziato a rintracciare sui nostri stessi territori nell’usura, nelle molteplici forme del riciclaggio e della criminalità organizzata.

Eppure, quel ponte percorso in nome della solidarietà ha aperto la strada della diplomazia dei territori, ripristinando antiche relazioni segnate certo lungo la storia anche da conflitti violenti, ma fatte soprattutto di scambi, di saperi, di culture che s’intrecciavano.

Pensiamo, tanto per fare un esempio, alla lingua franca che per secoli (fino a tutto il XIX secolo) si parlava nei porti del Mediterraneo e che gli arabi definivano “lisān-al-faranğī“, ovvero lingua europea. Un idioma di servizio per la comunicazione commerciale ma non solo, a base di veneziano e genovese, spagnolo e altre lingue mediterranee.

“Se ti sabir,

Ti respondir;

Se non sabir

Tazir, Tazir‘2

Ci racconta di un mare come grande laboratorio di sincretismi, come ci ricordava proprio Predrag Matvejević nel suo celebre “Breviario Mediterraneo“3 ed in fondo di questo stiamo parlando qui oggi nell’antico porto di Ancona.

Le grandi opportunità

Per molti anni ho lavorato nella cooperazione internazionale fra noi e i Balcani. Anni di prossimità nei quali sono avvenute contaminazioni positive ma nei quali abbiamo dovuto fare i conti anche con le pratiche discutibili che una cooperazione invasiva porta con sé. Esempi di insostenibilità, a partire da modelli di sviluppo che tanti danni hanno portato anche al nostro territorio: penso ad un turismo senza qualità, penso al saccheggio delle risorse, penso alla distruzione dell’ambiente.

Personalmente ho cercato di praticare una cooperazione fra comunità che avesse come tratto distintivo quello di far ragionare insieme tutti gli attori. Non sempre riuscendoci, perché in genere si preferisce la cooperazione intesa come trasferimento di risorse, aiuti, emergenze. Meno coinvolgente, più avvezza alle furbizie.

Quest’ultima strada non porta da nessuna parte. Se si vuole costruire una relazione fondata sulla reciprocità, ciò che occorre fare è investire sulla qualità, in primo luogo delle classi dirigenti, sull’intelligenza e sulla creatività.

Il richiamo nel titolo di questo incontro al “Vento di Adriano“, alla ricerca di una strategia che sapesse rifarsi alle comunità operose di Adriano Olivetti, mi ha fatto venire in mente un passaggio che Marguerite Yourcenar, nella sua straordinaria opera di archeologia letteraria che sono le “Memorie di Adriano“, affida alle riflessioni dell’imperatore romano sul proprio passaggio terreno:

“Fondare biblioteche, è come costruire ancora granai pubblici, ammassare riserve contro un inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire‘.4

Per evitare che i saperi si disperdano, che le persone si volgarizzino, che i giovani emigrino… è necessario investire nella bellezza e nella conoscenza, nell’elaborazione del passato (anche quello più recente), nella democrazia e nella partecipazione.

Investire sulla qualità significa inoltre valorizzare l’unicità dei territori, di ciascun territorio nella sua peculiarità di incontro fra ambiente, culture, storia e agire umano che nella penisola balcanica significa molto spesso sovrapposizione di oriente e occidente. Significa biodiversità, laddove il clima continentale s’incontra con quello mediterraneo. Vuol dire aver cura delle risorse, come l’acqua di cui questa parte d’Europa è ricchissima. O di una terra che, con le sue vaste pianure, molto può dare nell’obiettivo di “Nutrire il pianeta“. E di tanto altro ancora.

Dove l’opportunità abiti nel reciproco interesse, non nell’approfittarsi di condizioni di deregolazione e di sfruttamento che oggi segnano pesantemente il post comunismo.

La macro regione nel nuovo contesto

Con un ultima avvertenza. La macro regione non può diventare un giocattolo da usare per il turismo dei convegni. Dev’essere un modo intelligente per affrontare una crisi che, se strutturale, rappresenta semplicemente la nuova realtà con cui fare i conti. Non si può dire “speriamo che passi“.

Dobbiamo attrezzarci ad un nuovo contesto e questo richiede un cambio di paradigma. L’esigenza di “nutrire il pianeta“ ci pone immediatamente in relazione con la “coscienza di limite“, con la consapevolezza del carattere limitato delle risorse e dunque con la necessità di uno sviluppo che punti sulla qualità piuttosto che sulla quantità, sul fare meglio con meno. E sul fatto che, parallelamente, di fronte ad un contesto globalizzato, gli stati nazionali hanno fatto il loro tempo.

A spintoni nell’attualità, l’idea del Manifesto di Ventotene diviene realtà: l’Europa delle regioni (e non degli Stati) si fa spazio nella proposta di un’Europa a geometria variabile. Siamo certamente ancora lontani da tutto questo, ma iniziamo ad avere la consapevolezza che il contesto precedente non funziona più. E’ quel “non più e il non ancora“ di cui spesso vado parlando che descrive bene l’attuale passaggio di tempo.

A fine agosto ho partecipato ad un viaggio del turismo responsabile sul Danubio, il grande fiume metafora di un’Europa oltre le nazioni. Come il Danubio, l’auspicio è che anche l’Adriatico divenga nella coscienza dei popoli di entrambe le sponde un mare oltre le nazioni.

1Ivo Andrić, Romanzi e Racconti. Mondadori

2Moliere, Il borghese gentiluomo

3Pradrag Matvejević, Breviario Mediterraneo. Garzanti

4Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano. Einaudi

2 Comments

  1. Adriano ha detto:

    Carissimo Michele,
    speravo in un tuo post sull’argomento.
    Come spesso accade condivido pienamente l’analisi e i timori e apprezzo anche la lucidità di sguardo sul nostro presente.
    Hai ragione, la Macroregione Adriatica è una grande opportunità per “noi” abitanti dell’area e non solo, ma la fatica ad essere compresa e a mio avviso molta e non è solo un problema di classe dirigente. L’iter nella sua costituzione nasce dall’alto e non esiste un’opinione pubblica in merito. La stragrande maggioranza dei cittadini ne ignora l’esistenza. La società civile e chi lavora dal basso è estranea a tutto il processo costituente e il rischio, che si trasformi nel solito rituale da “turismo dei convegni” o caccia ai finanziamenti per il “particulare” è più di una probabilità.
    Il “Vento di Adriano” è un titolo sicuramente evocativo ma al convegno c’erano solo istituzioni, fondazioni, imprese, rivistine fatte in casa finanziate… ma mancava la società civile!
    Se l’Europa vuole sopravvivere deve imparare dal mare nostrum e dalla sua storia. Noi ci abbiamo provato a partire dal basso, dai territori, per ridare valore al sogno dell’Europa. Ci abbiamo provato, ma non siamo riusciti a costruire una comunità attraverso la diplomazia e la reciprocità tra i territori. Oggi a questo si preferisce altro.

  2. Michele ha detto:

    Quest’ultima considerazione ci dice molto. Fotografa un paese reale chiuso nei mille giardini del nostro particolare, piccoli o grandi che siano. Ciascuno a difendere quel che si ha e che un mondo sempre più piccolo ed interdipendente minaccia. La cd società civile non può che assomigliargli, così la politica. Ma a questo dovrebbero servire il pensiero, l’elaborazione e l’agire collettivo. Nascono dall’alto anche questi, stanne certo. Capisco la fatica di abitare questi luoghi, io stesso mi sento a disagio e soffro gli ambiti dove a prevalere sono le logiche di potere, il posizionarsi e tutto il testo. Ma al corpo a corpo, fin che se ne ha, non c’è alternativa.