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Addio ad Antonio Cassese, uomo dei diritti umani

Lettrici e lettori di Repubblica conoscono il tono inconfondibile degli interventi di Cassese, essenziali al punto di velare la passione che lo animava, per discrezione e diffidenza della retorica. Pochi giorni fa, riferendo qua del libro appena uscito, citavo la sua risposta al curatore, Giorgio Acquaviva, che gli chiedeva se, da presidente del tribunale internazionale per il Libano, non temesse per la propria vita. «Alla mia età è meglio morire per una buona causa che di infarto o di tumore».

Si sarà letta quella risposta come una nobile frase fatta: purtroppo stava parlando del suo commiato, con la misura solita, e con un rimpianto per quell’ennesimo compito cruciale interrotto, che si sarebbe concluso nel prossimo febbraio. Si intitola, l’ultimo libro, L’esperienza del male. Guerra, tortura, genocidio, terrorismo alla sbarra (il Mulino) e si può davvero chiamarlo un testamento. Cassese aveva voluto sperimentare il male, uscendo dal proprio mestiere di studioso e di professore, che non aveva mai abbandonato, a Firenze soprattutto, e alla Sorbona, a Oxford, alla Columbia di New York. Nomi illustri di università mescolati a quelli degli inferni di cui la terra è disseminata, il Cile e la Bosnia, il Darfur e la Cambogia. Raccontava, rubando al fratello Sabino la citazione dal Piccolo Principe sul geografo che non si muove dalla sua stanza e l’esploratore che va alla scoperta di luoghi e cose, di aver cominciato da "geografo" e di essere corso presto fuori, a "esplorare" il mondo, con le sue carceri e le sue camere di sicurezza, le sue guerre e le sue torture.

«Alla mia età»: aveva 74 anni, e ha badato a non dissiparli, mosso da un rigore kantiano temperato dall’ironia. Il libro ha una parte finale che ricostruisce nitidamente, con la formazione dell’autore, la temperie culturale di una generazione che ha visto cambiare il mondo vertiginosamente e si è sforzata di arginarne la corsa con regole giuste e riconosciute. Gli studi normalisti pisani, col fratello Sabino (originari di Atripalda, figli di Leopoldo, storico meridionalista), i comandamenti ufficiali di astenersi dalla politica e imparare il tedesco – ignorato il primo, seguito il secondo – la tesi sull’"autodeterminazione dei popoli", la curiosità appassionata per il modo «in cui il diritto internazionale registra i terremoti… che sono i movimenti di liberazione dei popoli».

La visione cristiana, pensava Cassese, ha avuto il grande merito storico di affermare che i diritti umani sono connaturati all’uomo, ma i diritti non sono innati. «L’uomo biologico è portato a calpestare i diritti altrui, non nutre sentimenti o inclinazioni "umanitari"… I diritti umani non sono dunque connaturati. Ma nel corso della storia, anche attraverso le religioni, la stirpe umana si è data un insieme di regole, di principi etici…

Pur senza aderire alla visione di una "rivelazione" divina, non ho difficoltà ad ammettere l’importanza di uomini e profeti che hanno messo per iscritto quei principii in documenti religiosi che hanno un significato straordinario anche per coloro che non credono siano stati rivelati da Dio. Ovviamente non minore importanza va riconosciuta ai grandi filosofi, fino a Kant, che mi sembra il più grande».
Nel 2008 era uscita per Feltrinelli una raccolta degli articoli, in gran maggioranza per Repubblica, intitolata Il sogno dei diritti umani. Introducendolo, il suo caro amico Antonio Tabucchi sottolineava l’indignazione che corre sotto ogni riga, su Bolzaneto o su Abu Ghraib, e l’indignazione non era ancora diventata uno slogan. Osservava Tabucchi, sulla scia di Cassese: «Ma non è l’indignazione a mantenere in vita la democrazia: sono le leggi». Le leggi hanno un suono ferreo, ma sono fragili come il sogno che le persegue. Quando presiedeva il tribunale per la ex Jugoslavia, e l’Aia era la sua città, «nei momenti più cupi e difficili – diceva – tornavo al Mauritshuis, il piccolo museo, a riguardarmi i Vermeer, e a ritrovarvi due cose che mi stanno a cuore: la pace e la perfezione». I principii, dice Cassese, sono un po’ come i personaggi in cerca d’autore: stanno lì, e aspettano qualcuno in cui incarnarsi. Hanno trovato lui.

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