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Acqua, nucleare, legittimo impedimento. Spunti di riflessione.

L’accusa che veniva rivolta al "Club di Roma" era quella di catastrofismo: la scienza avrebbe trovato le soluzioni ai problemi che lo sviluppo portava con sé. L’idea dominante era quella incardinata nel positivismo, la cui influenza era peraltro maggiore nella cultura progressista che in quella conservatrice. Ma a prescindere dall’impostazione ideologica, il dato di fatto è che questo grido d’allarme non è stato ascoltato e il pianeta ha proseguito sulla strada della crescita illimitata, senza mai interrogarsi sul tema del limite, delle risorse e non solo.

Tanto che nel 1992, in occasione del primo aggiornamento del Rapporto, col titolo "Beyond the Limits" (Oltre i limiti), gli stessi scienziati sostennero che i limiti della "capacità di carico" del pianeta erano già stati superati. Nel 2008, una nuova ricerca intitolata «Un paragone tra i I limiti dello sviluppo e 30 anni di dati reali» in cui si sono confrontati gli esiti con le previsioni del 1972, portarono alla conclusione che i mutamenti nella produzione industriale ed agricola, nella popolazione e nell’inquinamento effettivamente avvenuti, erano coerenti con le previsioni del 1972 di un collasso economico nel XXI secolo.

Cambiare rotta

Il carattere limitato delle risorse e la fragilità degli ecosistemi richiede un netto cambio di rotta, un salto di paradigma che faccia della sostenibilità planetaria il tratto essenziale di un nuovo umanesimo. Questa volta in alleanza con gli altri esseri viventi e con la natura. Perché ad essere in gioco (a rischio di estinzione per essere più precisi) sono già oggi il 30% delle specie viventi ed una percentuale ancora maggiore di specie vegetali per effetto della guerra contro la biodiversità messa in atto dalle grandi multinazionali agroalimentari. Fra gli esseri viventi, anche l’uomo.

Oggi ci sono 6 miliardi e 300 milioni di esseri umani sul pianeta. Nel 2030 le previsioni indicano che gli umani sulla Terra saranno 9 miliardi. Una moltitudine che – a differenza del passato quando Cina, India e Brasile erano a malapena annoverati fra i paesi in via di sviluppo – siede al tavolo delle trattative e rivendica il diritto ad un’esistenza dignitosa.

Questo significa una cosa sola: o le risorse esistenti vengono gestite con attenzione alla riproducibilità e ridistribuite equamente, o sarà la guerra. Ne abbiamo avuto le prime avvisaglie con il petrolio, oggi è già in corso la guerra per l’acqua e si è iniziata quella per la terra. Il tutto sotto l’incubo degli effetti sugli ecosistemi terrestri dello sviluppo illimitato. O ripensiamo i nostri consumi, i nostri stili di vita… o usciamo dal paradigma del petrolio e dalla dittatura del PIL… oppure la rottura di cui parlarono gli studiosi del Club di Roma all’inizio degli anni ’70 diverrà una realtà tutt’altro che remota.

La cultura del limite

La sfida è in primo luogo culturale e di buon senso. Per uscirne senza l’esclusione di una parte crescente di umanità occorre imboccare la sfida della sobrietà, declinata non nella tristezza del pauperismo ma nella bellezza del "fare meglio con meno". Questo impone un cambiamento nel quale le tecnologie siano al servizio della qualità delle nostre esistenze, ci aiutino a riconquistare tempo da dedicare alle relazioni, valorizzino le conoscenze e le professionalità. Significa altresì interrogarsi sulla nostra impronta ecologica, della comunità in cui viviamo, della nostra regione e del nostro paese… Vuol dire immaginare la politica come progetto di sobrietà piuttosto che di rincorsa affannosa al fare e al consumare, all’assecondare interessi che diventano privilegi, all’affermazione della cultura del "non nel mio giardino", prodotto di quel "il mio sistema di vita non è negoziabile" che diede il là alla prima guerra del petrolio.

Acqua, petrolio, terra

In altre parole il diritto alla vita, le fonti energetiche, il governo delle risorse. Sono proprio questi i temi in gioco nei referendum del 12 e 13 giugno. Un voto tutto politico nel senso pieno del termine, perché in discussione c’è la scelta di quale impronta vogliamo lasciare alle generazioni che verranno dopo di noi. Non sempre se ne ha consapevolezza, ma è certo che questi temi toccano corde vitali. Per questo si ha paura del pronunciamento popolare. Prima cercando di far mancare il quorum del 50% più uno degli elettori, evitando l’accorpamento del referendum con le elezioni amministrative e spostando verso l’estate la data del voto. Poi, dopo la tragedia di Fukushima che ha in poche ore vanificato la martellante campagna filo-nuclearista sulla presunta sicurezza delle centrali di terza generazione, provando un vero e proprio gioco di prestigio palesamente lesivo dell’istituto referendario: l’abrogazione per via parlamentare delle norme sottoposte a referendum, con l’intento di ripresentarle in virtù della maggioranza parlamentare non appena nell’opinione pubblica italiana si sarà affievolita la contrarietà al nucleare.

Analogo intendimento anche per il referendum sulla privatizzazione dei servizi idrici, tema sul quale 1 milione e 400 mila italiani hanno firmato per affermare che l’acqua è un bene comune il cui diritto inalienabile non può essere assoggettato alle leggi di mercato. Tentativi andati a vuoto grazie alla sentenza della Corte di Cassazione che ha confermato il voto anche sul referendum relativo al ritorno al nucleare.

Ora si tratta di raggiungere il quorum del 50% più uno degli aventi diritto e per farlo occorre che i temi referendari non vengano targati da schieramenti o partiti, bensì dalla convinzione che l’acqua è un bene comune, che il nucleare che vogliamo si chiama sole che irradia 16 mila volte l’energia di cui abbiamo bisogno e che la legge in Italia deve essere uguale per tutti.

La privatizzazione dell’acqua

Con l’articolo 15 del Decreto legge 25 settembre 2009, n. 135 "Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia della Comunità europea" lo Stato disciplina tutta la materia, prevedendo la privatizzazione della gestione dei servizi idrici. In base alla nuova normativa il conferimento della gestione dei servizi pubblici locali dovrà avvenire in via ordinaria tramite gara ad evidenza pubblica a cui potranno partecipare imprenditori o società in qualunque forma costituite oppure direttamente a società a partecipazione mista pubblico-privata che vedano il socio privato con almeno il 40% della proprietà e titolare dei compiti operativi connessi alla gestione. Per situazioni eccezionali che non permettono un efficace ed utile ricorso al mercato, in deroga alle modalità ordinarie, la gestione dei servizi può essere affidata a società a capitale interamente pubblico svolgenti la loro attività prevalentemente nell’ambito dell’ente, o degli enti pubblici che la controllano.

Il decreto detta anche le scadenze entro cui dovranno essere affidati i servizi e le date di decadenza degli attuali affidamenti. Gli affidamenti "in house" cesseranno improrogabilmente il 31 dicembre 2011.

Ad essere sottoposta a referendum è anche la norma relativa alla cosiddetta "giusta remunerazione", ovvero al garantire un margine di profitto significativo per gli investitori privati a prescindere dai costi di gestione, come se il guadagno debba essere considerato una variabile indipendente. Una cosa è l’obbligo della gestione in pareggio, ben diversa è la garanzia del profitto, con quel che significa sul piano dell’aumento delle tariffe.

Si è detto che con questa normativa l’acqua non viene privatizzata, ma solo la gestione del servizio idrico. Noi vogliamo affermare che l’acqua è un bene comune. Né privato, né pubblico, ma di ciascuno, come l’uso civico che nella tradizione delle nostre comunità rappresentava il minimo per vivere, il diritto di pascolo, la legna da ardere…

E che se le comunità locali non lo intendono fare non deve essere soggetta a logiche di mercato, gestita con parsimonia, data in concessione con favore alla comunità laddove diviene oggetto di attività economica (agricoltura, artigianato, industria…). E il diritto di decidere come utilizzarla, contrariamente alla legge Ronchi che invece obbliga alla privatizzazione, deve rimanere in capo alle comunità locali.

E’ questa l’onda lunga della sbornia liberista degli anni ’90, che ha attraversato gli schieramenti politici in maniera trasversale, facendo passare l’idea che la gestione pubblica fosse un disastro e che quella privata invece fosse simbolo di efficienza. Tutto questo, accanto al carattere limitato della risorsa idrica, ha fatto sì che l’acqua divenisse una fonte di profitto e di business, ha messo in moto le grandi multinazionali che si stanno comprando i sistemi idrici ed impoverendo i territori.

La situazione del servizio idrico in Trentino e l’uso delle prerogative dell’autonomia

L’esito positivo del referendum abrogativo della normativa nazionale avrebbe effetto immediato anche in Trentino, dove pure le competenze autonomistiche indicano fra le funzioni delle province autonome la gestione del servizio idrico. La difesa dell’acqua come bene comune segue pertanto due strade, quella del referendum nazionale e la strada del pieno esercizio delle prerogative dell’autonomia speciale. In particolare gli articoli 8 e 9 dello Statuto di autonomia indicano fra le competenze primarie "l’assunzione diretta dei servizi pubblici e la loro gestione a mezzo di aziende speciali", "gli acquedotti" nonché "l’utilizzazione delle acque pubbliche". Questo significa che il Trentino può legiferare autonomamente, purché in armonia con la Costituzione e i principi dell’ordinamento giuridico. In caso contrario, valgono le leggi nazionali.

A partire da questo contesto specifico, contemporaneamente all’approvazione del Decreto Ronchi, come Gruppo consiliare del PD del Trentino abbiamo presentato una mozione, poi trasformata in Ordine del giorno (n.89/2009) sulla Legge finanziaria 2010 dal titolo "L’acqua è un bene pubblico, la Provincia di impegni a difenderla", approvato a maggioranza dal Consiglio provinciale (e successivamente fatto proprio nella sua sostanza da molti Comuni trentini) nel quale si afferma fra l’altro che "l’acqua è un bene comune, un diritto umano universale non assoggettabile ai meccanismi di mercato".

La realtà della gestione del servizio idrico in Trentino è piuttosto complessa e riflette percorsi diversi seguiti dai Comuni nel corso degli anni. Nei 217 Comuni trentini la gestione del servizio idrico è la seguente:

– 193 Comuni gestiscono il servizio direttamente o attraverso società in house a totale proprietà pubblica;

– 17 Comuni (Ala, Albiano, Aldeno, Borgo Valsugana, Calliano, Civezzano, Fornace, Grigno, Lavis, Mori, Nave San Rocco, Nomi, Rovere della Luna, Rovereto, Trento, Volano, Zambana) hanno affidato a Dolomiti Energia (attraverso Dolomiti Reti) la gestione del servizio idrico;

– 7 Comuni (Levico Terme, Mezzocorona, Mezzolombardo, Pergine Valsugana, Riva del Garda, San Michele all’Adige, Tione di Trento) hanno affidato il servizio ad aziende speciali, utility locali, ecc.

Questi numeri possono trarre in inganno, in quanto i 17 Comuni che hanno affidato la gestione del servizio idrico a Dolomiti Energia corrispondono a circa 200.000 utenze.  Inoltre Dolomiti Energia ha ricevuto in eredità al momento della sua fondazione il patrimonio che era riconducibile a Trentino Servizi e, prima ancora, alla Sit: la proprietà dell’acquedotto del Comune di Trento. Va detto inoltre che tutti i Comuni che avevano affidato a DE la gestione del servizio idrico vedevano in scadenza la disciplina transitoria del contratto al 31 dicembre 2010.

A partire dall’Odg approvato nella discussione della Legge Finanziaria 2010 prende spunto il Disegno di Legge Gilmozzi poi entrato nella Legge Finanziaria 2011 come articolo articolo 22 e 23, che prevede – anche in relazione ai margini di autonomia previsti nel Decreto Ronchi – la possibilità che i Comuni che hanno gestito finora in economia (o in house) il servizio idrico possano continuare a farlo, anche in concorso con fra loro (Comunità di Valle o aree omogenee). Nell’articolo 22 della Legge Finanziaria, in sede di discussione, è stato inoltre inserito (sempre per iniziativa del gruppo consiliare del PD del Trentino) un emendamento nel quale si sposta la data di scadenza delle concessioni per i 17 Comuni di DE dal 31.12.2010 al 31.12.2011.

Inoltre, con l’approvazione dell’Ordine del giorno n.184, sempre in sede di discussione sulla Finanziaria 2011, il Consiglio Provinciale auspicava l’attivazione del diritto di "scorporo" delle attività relative al ciclo integrale dell’acqua (e dei rifiuti) da DE, al fine di dar vita ad una nuova società interamente controllata dagli enti locali che partecipano a DE alla quale affidare il servizio idrico. Il diritto di scorporo, previsto all’atto di costituzione di Dolomiti Energia, doveva essere attivato entro il 31 marzo 2011. Gli azionisti di maggioranza hanno quindi provveduto allo slittamento di questa data al 31 dicembre 2011 per dar modo ad un apposito gruppo di lavoro di formulare un’idonea proposta nella direzione auspicata dal Consiglio Provinciale. Altri emendamenti sono stati presentati ed approvati in sede di discussione sulla Finanziaria 2011 in ordine al risparmio dell’acqua e alla diffusione delle fontane pubbliche.

 

Documentazione 1

Primo quesito (Modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica. Abrogazione):

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3 Comments

  1. Edoardo Arnoldi ha detto:

    Riporto da L’Adige uno spezzone dell’intervista a Bauman che mi sembra particolarmente significativo:
    Quanto è «consumata», la nostra libertà, professor Bauman? «Il tema del Festival 2011 è azzeccatissimo: i confini della libertà economica sono ormai vicini. Non stiamo più ampliando le nostre possibilità di scelta, ci stiamo avvicinando al limite e stiamo ipotecando il futuro dei figli e anche dei Paesi diversi dal nostro». Un pronostico su come finirà? «Siamo in un vero e proprio interregnum , come quello che si è verificato storicamente dopo la morte del primo re di Roma, Romolo, e prima dell’ascesa del nuovo re, Numa Pompilio: nel 716 a.C. tutto era sottosopra, e Gramsci gli ha attribuito un significato moderno: non possiamo più vivere come abbiamo fatto finora, ma il nuovo sistema di vita non è ancora inventato. È anche l’ interregnum , terribilmente incerto, di oggi».

    Chi può chiudere questo interregnum?
    A me sembra che la politica, la buona politica, rappresenti il soggetto a cui fare necessrio riferimento per guidare la società in questa delicata fase.
    Forse non per tutti è scontato e lo stato di deligittimazione in cui si trova certo non aiuta, ma ne vale lo sforzo ed i politici devono dimostrare coraggio.

    Se caliamo l’argomento nello specifico dei referendum, è facile notare come il dibattitto, da entrambe le parti, sia emblematicamente rappresentativo di queste difficoltà.
    Sul nucleare si fronteggiano opinioni che fanno riferimento quasi esclusiavamente ad aspetti tecnologici e sanitari.
    Manca, a mio avviso, un necessario riferimeno al modello di sviluppo che vogliamo per il nostro futuro e per quello delle generazioni future.
    Il nostro livello di consumi è sempre cresciuto (in questi ultimi decenni ancora più velocemente) per necessità legate alla “crescita”.
    I bisogni dei cittadini, però, non sono aumentati in maniera proporzionale, almeno quelli legati al benessere sostanziale.
    Sono aumentati soprattutto i bisogni indotti da un economia distrorta, consumistica: bisogni “suggeriti” o, più subdolamente, imposti con sofisticate tecniche di persuasione.
    Il ragionamento sull’energia è strettamente ed evidentemente collegato. Anzi, i consumi energetici sono storicamente presi a misura della ricchezza prodotta (intensità energetica) e solo recentemente si stanno introducendo dei ragionamenti sull’efficienza di questa intensità. Purtroppo l’Italia fa molta più fatica degli altri paesi europei a disaccoppiare in maniera significativa la crescita economica dai consumi energetici.
    Quindi viene dato per scontato che, se vogliamo crescere, i consumi energetici debbono aumentare.
    Dovremo interrogarci meglio su quanto, che cosa e perché consumiamo sempre di più. Ma questo domanda viene quasi sempre elusa perchè in contrasto con chi pone alla base del modello di sviluppo la crescita senza se e senza ma.
    Non possiamo indugiare ancora a lungo sulla revisione degli indicatori del benessere, basati ancora su parametri di valutazione obsoleti.
    E’ urgente e indispensabile trovare un modo di uscire da questo circolo vizioso di cui siamo prigionieri.
    Edoardo Arnoldi

  2. stefano fait ha detto:

    seguo, sulla scia di Edoardo Arnoldi…e de “il mio stile di vita non è negoziabile” di Bush.
    L’attuale modello di sviluppo è all’insegna dell’hybris, che comprende mania di dominio delle risorse e della vita, crescita compulsiva, espansione sconfinata dei desideri, spreco strutturale, dogma del “puoi essere ciò che vuoi”. Questi sono tratti caratteristici di un bambino viziato. Viviamo in preda alla sindrome del bambino viziato e capriccioso e il declino della nostra civiltà non è dovuto alla carenza di idee su come migliorarlo, ma alla progressiva infantilizzazione dell’umanità, rimbambita da edonismo, consumismo, pubblicità/propaganda.
    Credere che a tutto ciò si possa porre rimedio con una riforma strutturale dall’alto è estremamente ingenuo. Il marcio è dentro ciascuno di noi e da qui parte il circolo vizioso a cui accenna Arnoldi. Dal nostro desiderio di imporci sugli altri, dalla nostra propensione ad interpretare il nostro ruolo sociale e la nostra intera esistenza in termini quantitativi, economici che portano con sè inevitabilmente la
    moltiplicazione dei bisogni, delle aspettative e delle dipendenze da un sistema che si nutre di questa eterna insoddisfazione, che ci intossica di bisogni, che ci spinge a togliere ai poveri per dare ai ricchi senza neppure rendercene conto.
    “bisogni “suggeriti” o, più subdolamente, imposti con sofisticate tecniche di persuasione”. Dice bene Arnoldi.
    Dobbiamo cambiare radicalmente il nostro modo di pensare, dalla culla alla tomba. Passare dal paradigma del cambiare il mondo per adattarlo alle mie esigenze a quello di cambiare noi stessi per adattarci ad un mondo che era qui prima di noi e continuerà ad esserlo dopo di noi.
    Per questo è INSENSATO contestare o ignorare quanto scrive Nardelli: “Noi vogliamo affermare che l’acqua è un bene comune. Né privato, né pubblico, ma di ciascuno, come l’uso civico che nella tradizione delle nostre comunità rappresentava il minimo per vivere, il diritto di pascolo, la legna da ardere…”.
    Se non facciamo così la nostra hybris incontrerà prima o poi (più prima che poi) la sua nemesis e sarà quest’ultima a porci i famosi limiti.
    Da ciò dovrebbero discendere le nostre in merito ai referendum (e alle guerre “umanitarie”, ecc.).

  3. stefano fait ha detto:

    Mi permetto di aggiungere che il cambio di paradigma non dovrebbe essere declinato nel senso moralistico della distinzione tra bene e male, troppo scivolosa per costituire un riferimento saldo, ma piuttosto in quella della scelta tra violenza e non violenza, che rappresenta il vero discrimine delle nostre azioni. Laddove “violenza” andrebbe intesa nel senso più ampio (e più corretto) di: “ogni azione compiuta (oppure la relativa minaccia) da una persona per recare danno ad un’altra persona o per costringerla a fare (o non fare) qualcosa, senza tener conto o violando la volontà dell’altra persona”. Questa è la radice dell’hybris che ci sta distruggendo e che ci fa credere di essere buoni anche quando le conseguenze delle nostre azioni sono terrificanti.