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Accoglienza. Il ritiro del dovere pubblico

Poco dopo si accese la miccia nei Balcani con la frantumazione della Jugoslavia e l’apice dello scontro in Bosnia-Erzegovina, la più esposta per la sua delicata composizione etnica (44% musulmani, 31% serbi, 17% croati). Il conteggio dei profughi salì a due milioni.

E se nel cuore del Novecento in tanti abbandonarono l’Africa stretta tra colonialismo e feroci dittature postcoloniali, nei coevi meriggi di ponente chi cerca riparo e chiede asilo politico sono i sudditi di Libia, Siria, Iraq, Eritrea, Etiopia e via via fino al Pakistan o all’Afghanistan. Sudditi, si fa per dire, dacché molti di questi Stati lo sono virtualmente. Traversano deserti e mari perché morire nell’odissea equivale a sopravvivere in quei luoghi. Vita e morte si annullano.

Nel Vecchio continente – concausa delle anarchie libiche, siriane, irachene, afghane e dell’estremismo sunnita – soffia l’ultimo vento della regressione con la politica locale, nazionale ed europea che si è ritirata. Alcuni indizi? Il regolamento di Dublino in tema di asilo politico, obbligando i rifugiati a rimanere nel Paese d’ingresso, è un nonsenso che impedisce un’equa distribuzione dei profughi e delle responsabilità per disinnescare un fenomeno sul quale speculano molti agitatori politici. Tra i membri dell’Unione europea, inoltre, esistono tante procedure di asilo quanti sono i Paesi. Ciò fa sì che le richieste dei siriani vengano accolte nel 99,8% dei casi in Svezia e nel 64,3% in Italia mentre gli afghani sono in sintonia con la legislazione italiana (95,4% di accettazione) ma non con quella britannica (36,9%). Infine, per rincorrere il fantasma populista, sono state affondate missioni umanitarie come “Mare Nostrum” a favore di operazione di corto raggio (“Triton di Frontex”) che hanno accresciuto il numero di vittime.

Il trogloditismo leghista che censura l’ospitalità è il lembo estremo, come si osserva in Trentino, di una subcultura contagiosa e senza sbocchi sociali collettivi. Una subcultura che segna il ritiro del dovere pubblico e l’affermazione della rivendicazione privata a godere in esclusiva della civiltà dello “shopping mall”. Se questo non è un naufragio, poco ci manca.

 

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