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30 Aprile 2015L’uomo solo
4 Maggio 2015La prima riguarda il concetto di “maggioranza”. La tesi che sembra prevalere sottolinea soprattutto il diritto della maggioranza di poter decidere, e ciò sia all’interno delle istituzioni che nell’ambito di un partito. Ciò significa che le minoranze possono certo esprimere il loro dissenso, ma non sino al punto da frenare od ostacolare l’iter impresso ad una legge (nel caso specifico quella di riforma elettorale) dalla maggioranza che in tal caso si avvarrebbe di una sorta di investitura o di un diritto morale a perseguire quell’obiettivo. Al punto da mettere in campo una sorta di inversione dell’onere della prova: è la minoranza che deve dimostrare coerenza e linearità, anche perché altrimenti sarebbe tacciabile di una sorta di “dittatura” lesiva del normale iter democratico. Si dà però il caso che, accanto a questa posizione che indubbiamente ha una sua logica stringente, il dibattito teorico presenti anche altre letture, più articolate e meno unilaterali: Bernard Manin, ad esempio, uno dei padri della democrazia deliberativa, sostiene che essere in maggioranza “di per sé non conferisce alcun speciale privilegio” ed una decisione si può ritenere democratica quando costituisce il risultato di un processo nel quale tutti i “punti di vista”, anche quelli di minoranza, abbiano potuto esprimersi su una base di pari opportunità. Il problema quindi non riguarda più i presunti diritti di una maggioranza, ma “come” quella maggioranza si forma: se da una contrapposizione radicale in cui una posizione finisce per prevalere sull’altra e ci si limita a contare le preferenze, o se invece da un confronto anche aspro ma comunque aperto e dialogico, in cui le parti in causa siano anche disponibili a rivedere le posizioni iniziali. Un passaggio quest’ultimo molto significativo, perché conferirebbe alla “maggioranza” una legittimazione che prima non aveva.
La seconda questione riguarda invece il ruolo di un sistema elettorale. Che è importante, come ci insegna la lezione di Giovanni Sartori, in quanto influenza il sistema dei partiti e con esso l’intero sistema politico. Ma che negli ultimi anni, sia nel dibattito pubblico che nelle concrete proposte avanzate, è stato caricato di una eccessiva responsabilità, e cioè quella di conferire al cittadino-elettore la possibilità di investire direttamente non solo una maggioranza, ma anche un governo e il suo leader. Si tratta in realtà di una responsabilità che non gli compete: perlomeno nei sistemi parlamentari, anche quelli di tipo “maggioritario”, il cittadino si limita ad eleggere un Parlamento e magari una maggioranza “parlamentare”, ma nulla più, al punto che il rapporto di fiducia fra esecutivo e legislativo rimane vivo ed operante, mentre invece nei modelli attualmente in discussione la dinamica elettorale tende a verticalizzarsi a favore del premier e dell’esecutivo. E’ questo (fra tanti altri) il difetto principale dell’Italicum: quel “premio di maggioranza”, sconosciuto alle maggiori democrazie europee, che rischia di conferire al sistema tratti leaderistici e plebiscitari, facendo venir meno la capacità di “giudizio” e “controllo” dei cittadini nei confronti delle istituzioni e del parlamento nei confronti dell’esecutivo, che costituisce, come sottolinea Nadia Urbinati, una delle caratteristiche fondamentali di una democrazia “rappresentativa” e la garanzia che il processo democratico si mantenga costantemente attivo.
Io credo che queste non siano questioni secondarie e meritino maggiore attenzione non solo da parte degli addetti ai lavori, ma anche dei cittadini.
* Alessandro Branz è componente dell’assemblea provinciale del Partito Democratico del Trentino