25 aprile. Arena di Pace e Disarmo
26 Aprile 2014Scollinare il Novecento…
1 Maggio 2014Avevamo chiesto al nostro professore di storia di prima media inferiore perché ci fosse quell’aggettivo: economica. A qualcuno di noi, e a me fra questi, sembrava una limitazione dopo un’apertura.Certo, era solo l’impressione di un ragazzino, più linguistica che di contenuto. Eppure quel fastidio avrebbe dovuto essere ascoltato con maggiore attenzione. Me ne rendo, e ce ne rendiamo conto, oggi. Ma si sa, noi esseri umani scegliamo la via più semplice e veloce tutte le volte che possiamo.
Allora la parola comunità tendeva a prevalere ed era portatrice di speranza. Nati una diecina di anni dopo la fine della tragedia della seconda guerra mondiale, sentivamo comunque lontanissima quella guerra fratricida in Europa. Eppure ci capitava ancora di giocare in spazi e territori dove erano visibili le tracce delle bombe; erano ancora molte intorno a noi le case distrutte da ricostruire. La memoria umana, si sa, è un presente ricordato e procediamo per rimozioni, ri-narrazioni e adozioni di nuovi racconti.
Nasceva allora un nuovo racconto e ora io e te, caro Paul, così ti scrissi allora, possiamo concorrere a scriverlo. Laddove è scorso il sangue può intervenire il dialogo e possiamo scoprire di essere fratelli mentre avevamo pensato di essere nemici e come nemici ci siamo trattati. Così ti scrissi ed ero convinto, e anche tu, per come mi rispondesti, che non si sarebbero più levate le armi tra noi. Eppure quelle sei macchie di colore sulla carta geografica ci sembravano strette, non capivamo perché certi Paesi così vicini rimanessero fuori.
Ci chiedevamo cosa ci fosse a sud del nostro mare, quel Mediterraneo che, studiando la storia, avevamo imparato essere la culla di tutta la nostra civiltà. Gli insegnanti, a cui chiedevamo maggiori informazioni si dividevano in più orientamenti. Qualcuno escludeva che si potesse guardare a sud e mostrava quella che poi avremmo capito era ancora una nostalgia dell’impero: lì abitavano popoli non civili e non pronti per la democrazia.
Qualcuno diceva che se si comincia dall’economia si è già a metà dell’opera. Quanto aveva ragione ce ne saremmo accorti dopo: nel senso che quella che nasceva era un’opera a metà, o forse meno. Qualcun altro si accaniva a parlare di confini e vi era l’inizio di un percorso che avrebbe portato poi a sfumare il senso e il valore della parola e delle pratiche del confine.
Pensa, caro Paul, che sono stato recentemente in Slovenia, passando da Gorizia, e mi sono ricordato di quale muro invisibile ma invalicabile con il corpo e con la mente vi fosse in quella frontiera. Ti confido che sono sceso nei pressi di un presidio ormai abbandonato e sono andato avanti e indietro un certo numero di volte respirando il senso della libertà di attraversare uno spazio una volta inavvicinabile.
Guardando a quella nostra corrispondenza di allora, caro Paul, potremmo allora dire che ne abbiamo fatta di strada. Ma possiamo dire che siamo europei, che pensiamo europeo, che ci sentiamo europei e una molteplicità condivisa basata su dialogo delle differenze oggi ci accomuna? Non è facile rispondere. Siamo aumentati di numero e oggi abbiamo allargato l’area che allora era solo di sei colori. Tu però continui a usare la sterlina e noi l’euro.
Viaggiamo in molti dei paesi, non in tutti, solo con la carta d’identità e in alcuni, non in tutti, non dobbiamo più esibire il passaporto. Abbiamo persino provato a darci una carta costituzionale comune ma non ce l’abbiamo fatta. Si è aperto un conflitto insanabile tra orientamenti religiosi e culturali che ci ha fermato.
È il passato che non passa, caro Paul, e la storia mostra di non essere maestra di vita. Quanto sangue abbiamo versato per le religioni e ancora ci dividiamo per esse. Il confine mentale non riesce a essere vissuto come inizio e viene imposto come fine, mostrando di essere ancora più tenace di quello fisico. La moneta comune, che pure siamo in parte riusciti ad affermare, è allo stesso tempo il segno del nostro problema: non siamo riusciti ad andare oltre la finanza e l’economia e lo abbiamo fatto con un peso burocratico che in molti casi si mostra insopportabile e alimenta non poche posizioni che ora mettono in discussione l’unione europea.
Negli anni del predominio dell’economico ci siamo scordati del simbolico e della sua importanza per far accadere qualsiasi cosa. Eppure quando siamo a Parigi, a Londra, a Roma, a Praga o a Vilnius ci sentiamo a casa. Per non parlare dello stesso pane che mangiamo a nord e a sud del Mediterraneo. È la paura che sembra comandare, caro Paul. E mette in discussione il nostro sogno di allora. Non riusciamo a estendere l’area della nostra coscienza di noi stessi e ci dedichiamo con tenacia a respingere i fattori comuni e a enfatizzare le specificità.
Oggi le stratificazioni sono così tante da creare un crogiuolo di posizioni e una paura diffusa e incontenibile. I paesi più forti non comprendono e non sostengono quelli più deboli e tutti insieme non siamo capaci di dialogare con la sponda sud del nostro mare che assume tragicamente le caratteristiche di un cimitero dei corpi e del dialogo possibile. La paura porta a chiudersi e ci difendiamo, inventando nemici e separazioni. Non ci mostriamo capaci di gestire il conflitto, cioè l’incontro tra le differenze, riconoscendo finalmente che una unitas multiplex potrebbe essere un esempio per il mondo e una via di emancipazione per noi stessi.
Molti la pensano come noi e guardano fiduciosi alle possibilità, mentre cercano di fare i conti con i vincoli. Di fronte al riaccendersi delle etnie e dei rischi di guerra, come accade in Ucraina, ci sentiamo spiazzati eppure potremmo avere una precisa voce in capitolo, ma non ce la diamo. Ancora una volta le voci sono tante e non emerge un principio unificatore.
Quando tu sei venuto in Italia, tanti anni fa, dopo le nostre prime lettere, e io poi sono venuto a Londra da te, ci siamo divertiti a fare il gioco della affinità e delle differenze. Ci siamo detti che se avessimo avuto solo affinità ci saremmo annoiati e se avessimo avuto solo differenze non ci saremmo capiti. Allora forse dovrebbe essere un gioco come questo il gioco da giocare. Se lo giocassimo bene faremmo qualcosa di importante per i nostri figli che già sono più europei di noi e meritano un nostro sforzo, per consegnare ai loro figli una casa comune grande come il pianeta Terra, di cui loro abiteranno una parte che si chiama Europa.
* Questo articolo è stato pubblicato nei giorni scorsi come editoriale sul Corriere del Trentino