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26 Dicembre 2013“A nord di Trento a sud di Bolzano” nasce da qui, dalla consapevolezza che il paesaggio è racconto, crocevia di storie individuali nel loro farsi narrazione collettiva, spazio fisico e culturale che cambia con lo scorrere del tempo, senza soluzione di continuità, espressione dinamica dell’identità di un territorio e di coloro che lo abitano. “In questo senso possiamo pensare che il paesaggio sia come un deposito, un magazzino di storie avvenute e di fatti che il tempo fa precipitare per effetto del procedere storico che, inesorabile, come un processo chimico, rinnova via via le situazioni territoriali”[2].
Capire il paesaggio significa indagare noi stessi nel nostro perenne sostare sul confine tra ciò che non è più e quel che non è ancora. Lo stesso confine che segna il territorio compreso fra Trento e Bolzano, “apparentemente spazio di mezzo, luogo compresso fra due capoluoghi, corridoio tra la pianura e l’Europa”, ma in realtà “microcosmo originale e complicato, frontiera nascosta fatta di frammenti da decifrare e di memorie costruite attorno all’incontro tra la civiltà latina e quella germanica.”[3] Un confine sempre più labile e meno rappresentativo di questo territorio continuo, ponte sospeso tra l’Europa ed il Mediterraneo, che trova nella complessità delle proprie differenze il valore della sua unicità.
Dopo l’analisi delle forme urbanistiche ed architettoniche della prima edizione, in questa seconda abbiamo deciso di volgere lo sguardo all’elemento che più di tutti caratterizza l’identità di questo territorio: la vite. La vite come unità elementare della percezione, forma paesaggistica, fattore produttivo, descrittore territoriale. Ma soprattutto, la vite come elemento sospeso tra il radicamento e l’ubiquitarietà.
Attraverso la fotografia abbiamo cercato di costruire il racconto del paesaggio viticolo della Valle dell’Adige, indagandone i segni del tempo, le forme dei luoghi e le tracce del lavoro umano lasciate da chi, con costante reciprocità, col suo lavoro trasforma il paesaggio al contempo interiorizzandolo come proprio spazio mentale.
Il paesaggio viticolo è dialogo tra passato e presente, nell’eterna tensione del mondo contadino tra tradizione e innovazione. Di fronte alle esigenze della produttività e della conservazione dei caratteri originali del paesaggio, il territorio si modifica e offre di sé immagini diverse. In mezzo intravediamo i segni di quel “tradimento fedele” nel quale i contadini distinguono ciò che va abbandonato e ciò che invece è utile e necessario trasmettere. Il mondo contadino incessantemente trasforma e conserva, conciliando sé stesso col tempo che passa. Sono tanti gli elementi attraverso i quali si può decifrare il paesaggio viticolo: le geometrie delle sistemazioni della vite, i metodi di allevamento, le linee della viabilità interpoderale, le forme e le collocazioni degli edifici rurali, il suo rapporto con gli spazi antropizzati, siano essi urbani, industriali o commerciali.
La storia dell’agricoltura è storia di lavoro e fatica. Il rapporto tra l’uomo e la vite interpreta e narra la tradizione come nessun’altra attività umana: nella stagionalità del lavoro, meccanizzato o manuale, le conoscenze e i saperi tradizionali si fanno tecnica e la tecnica conforma il paesaggio. Nella certezza che solo “l’immobilismo storico lascia povero di elementi il paesaggio”[4].
[1] E. Turri, “Il paesaggio racconta”, 2000
[2] idem
[3] G. Ulrici, “Un occhio critico da Trento a Bolzano”, Corriere del Trentino, 23 novembre 2012
[4] E. Turri, “Il paesaggio racconta”, 2000
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