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Quel paternalismo populista che l’Italia ha già conosciuto in un altro ventennio (preceduto anch’esso dal rancore) e che pure non ha saputo elaborare. Niente affatto casualmente Silvio Berlusconi ha più volte affermato che l’errore di Benito Mussolini è stato quello di perdere la guerra. Non oso nemmeno pensare se per disgrazia l’avesse vinta…

Sì, Silvio Berlusconi ha rappresentato quella deriva culturale e politica che dava voce ad un modo di essere di un paese in preda al rancore e alla solitudine sociale, chiuso nel proprio particolare e nella difesa del proprio giardino, dove prevale la furbizia e il "si salvi chi può". Cui si contrapponeva un corpo politico che galleggiava sul fallimento altrettanto non elaborato del comunismo, incapace di una progettualità in grado di dare risposte alle sfide che la globalizzazione, il carattere limitato delle risorse e il dominio delle cose sull’uomo… ponevano.

Questo è stato Berlusconi, dal 1994 ad oggi. Così è cambiato il paese, nella cultura come nelle relazioni sociali. Anni nei quali sono cresciute a dismisura le diseguaglianze
sociali, il debito pubblico, la progressiva finanziarizzazione dell’economia, l’assalto all’ambiente e l’abbandono del territorio.

Il declino italiano è stato appena attenuato dagli anni della sfida europea, che ha vissuto con Romano Prodi (e la nascita del PD) una stagione importante quanto breve.
Infrantasi per il manifestarsi di quello spaesamento che ha lacerato le ragioni del nord e reso difficile una ricomposizione sociale nell’esplodere di mille corporativismi (e di una politica che li cavalcava). E, insieme, per la difficoltà di costruire una sintesi
originale sul piano culturale prima ancora che politico e con esso un nuovo racconto, insieme territoriale ed europeo, del presente.

Al declino del paese è corrisposta l’insostenibilità del debito pubblico e una forte caduta di credibilità, con il suo leader plurinquisito e più volte condannato. Eppure anche nel momento in cui sembrava che finalmente una stagione fosse definitivamente archiviata, la fotografia politica dell’Italia emersa nelle elezioni del febbraio scorso ha mostrato un paese ancora in parte ipnotizzato da Silvio Berlusconi e, cosa ben più grave, ampiamente subalterno alla cultura politica di cui è emanazione (e non parlo solo del grillismo…). Tanto da rimetterlo in gioco nel governo di larghe intese fino alla rottura di questi giorni.

Osservando con il necessario distacco l’Italia, appassionato nel leggere i processi sociali, attento a quanto avviene lungo le strade dei territori che la politica in genere sorvola, fatico a cogliere i tratti di un cambiamento capace di archiviare il ventennio berlusconiano. Piuttosto vedo un radicalizzarsi delle appartenenze post ideologiche e dei poteri forti, un marcato smarrimento sociale e un crescere sempre più preoccupante dell’antipolitica.

Del resto la politica non offre un grande spettacolo, incapace com’è di risposte di alto profilo. Così come non vedo processi di ristrutturazione del quadro politico tanto che anche chi ha avuto in passato capacità di intuizione oggi non sa andare oltre il popolarismo. E alla domanda "con chi si candida a governare il PD?" non vedo risposte e ne misuro l’isolamento.

Ragioni per le quali userei un po’ di prudenza nell’affermare che la stagione di quell’anziano signore che ieri il Senato ha estromesso dal Parlamento è finita. 

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