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Irpinia, Terremoto del 21 agosto 1962. Cinquanta anni fa. Una fine del mondo annunciata

Di verità non ce n’era mai stata e, comunque, ce n’era poca da tempo. La gente non aveva capito i cambiamenti e chi era padrone con i Borbone aveva continuato a comandare con l’Italia. Ma dov’era poi l’Italia e cos’era? Sulle porte dei pagliai e delle stalle la Stella e Corona, simbolo di una nostalgia monarchica senza fondamenti, era ancora ben in vista e così rimase dopo le ferite del terremoto del 21 agosto 1962. Nonostante l’insistenza dei preti, la loro tenacia e le loro minacce dell’inferno per sostenere i Sullo e i De Mita di turno, era rimasta nella memoria di tutti l’esclamazione di rifiuto di zio Luigi fatta a Padre Mancini dei Mercedari di Carpignano, in perfetta enfasi da combattente del Carso: "meglio deviare il sole dal suo corso che noi dalla Stella e Corona".

Strana vocazione della gente piegata e tenace dei campi di qui, di consegnarsi allo sfruttatore di turno. I soliti noti erano stati nazionalisti, poi si erano vestiti d’orbace con superbia e strafottenza che si sarebbe rivelata vigliacca molto presto, come certi farmacisti e presidi di scuola, per divenire poi democristiani di ferro. I soliti prestatori a usura e esattori delle tasse erano divenuti possessori dei soldi e della finanza e medici poco attendibili, padroni di ospedali, sindaci e presidenti di squadre di calcio, consiglieri provinciali e geometri detti ingegneri; disponevano come sempre di corpi e di anime sotto l’ala maleodorante della "balena bianca". Li sentivi arrivare nelle campagne in tempi di elezioni, con il loro tanfo di brillantina Linetti, e non ti facevano voglia, loro no: erano falsi e finti e non li avresti più visti fino alle prossime elezioni. Quando la terra tremò piovve sul bagnato. Ferite su ferite nelle notti a dormire nei pagliai, da agosto all’inverno, mentre si contavano le crepe, si abbandonavano case rese inabitabili da perizie più scalcinate dei muri e si iniziava a sentir dire una parola che sarebbe divenuta un ritornello attraente e misterioso: il "decreto" che sarebbe arrivato o no solo grazie alla intercessione dei soliti noti. Sempre loro si erano messi in mezzo, tra la gente e il terremoto: il "decreto", parte per il tutto, era il documento che portava i soldi per la ricostruzione o per riparare le case che non erano da demolire. Iniziò il confronto: ma tu con chi stai? Con l’ingegnere Tizio o con Caio? Tizio se la fa con l’assessore Tale che ti fa mettere la domanda in cima alla pila, ma sai com’è, bisogna ungere la ruota. Fu l’epopea dei geometri che divennero, sulla botta, ingegneri. E non era più questione di roba, prosciutti, polli, salami. Un segno che si vedeva, concreto, di quel cambiamento fu che ora ci volevano soldi. Solo soldi volevano e niente che non fossero soldi. E non bastavano mai; ce ne volevano per tutti i passaggi per i quali le parole mai sentite non si contavano: nulla osta, autorizzazione, delibera, approvazione.  

I geometri avviarono l’incasso delle mazzette per risarcire la propria incompetenza; si allearono con i politicanti di sempre che divennero pure banchieri; molti che non avevano né arte né parte si fecero muratori e costruttori; con la complicità dei diseredati della storia e della memoria, quasi tutti, depredarono il mondo che li aveva generati fino a distrarlo per sempre dalla sua via. Tremava ancora la terra, che, tra le urla, i pianti e la carne dilaniata dalle pietre antiche, già si stavano accordando su come fare il grande sacco. Le ruspe erano già in moto e le tresche non si erano mai interrotte. Mentre, grondanti di falsità contrita, accompagnata da lacrime, false pure esse, facevano discorsi ai funerali, sempre loro stavano trattando sotto banco come distruggere campagne, terre e coltivazioni, rovinare per sempre i profili dei paesi e della storia, creare case finte in serie e vendere e comprare anime e cose. E la gente, tutta la gente, volentieri vendette e ancora vende l’anima al miglior offerente cedendo, come la talpa, gli occhi per un centimetro di coda.

Con il tempo e con la paglia maturano le nespole. Chi ha saputo usare il tempo per far maturare i propri affari ha lasciato agli altri solo quel vago sapore di marcio che avevano le mele annurche toccate dal tempo quando si andava a prenderle nella paglia. Quelle buone erano per il mercato e le toccate si potevano mangiare. Ma lasciavano in bocca un senso di marcio misto a quello che avrebbe potuto essere il loro sapore se fossero state integre. Le mele buone se le mangiarono in pochi dopo il terremoto. Quelli di sempre e alcuni che si erano improvvisati impresari, ingegneri o muratori. Non tantissimi furono a riempirsi le proprie casse, ma lo fecero bene, con una maestria per il malaffare che attivò le reti clientelari e politiche che durano per generazioni, verso una nuova avventura. La copertura politica, sempre ben celata e protetta, giunse a creare banche e mutue, fino a far emergere una nuova categoria di persone, con comportamenti mai visti e una altrettanto sconosciuta arroganza. Quelli che erano stati i compari della domenica divennero i nuovi ricchi e intorno a loro si crearono conventicole di aiutanti e portaborse che, per quanto si trattasse di briciole, mangiavano pure loro. I territori, le campagne, i paesi e la forma delle case, le case dell’uomo, furono i bersagli della loro principale aggressione. Col territorio di quel mondo tutto intero se la presero e con i modi di costruire le case mostrarono la loro fame senza fine e la loro volgarità interessata. Stavano seppellendo per sempre sotto le loro pance cadenti il mondo di ieri.

 " ‘Ncopp ru cuott l’acqua vulluta". Quante volte ho sentito dire, da chi aveva una disgrazia subito dopo un’altra, queste parole, accompagnate dal lamento e dalla consolazione di chi aveva la stessa sorte. Un mondo non finisce mai in una botta sola. Forse, sempre, quando un mondo finisce ne comincia un altro, almeno un poco. Come quando d’agosto capita di vedere una luce o un colore dei campi che sanno già d’inverno. Agosto è capo d’inverno, si dice infatti da queste parti. Nelle facce della gente, nei resti delle ballate che si cantavano per affrontare la fatica, nei miracoli a cui ormai si credeva e non si credeva, negli intrecci tra uomini e donne, celati ma anche alla luce del sole, nei dolori delle partenze per tutte le Americhe del mondo, nei ritorni previsti ma impossibili, pena un sentimento di sconfitta e fallimento; in tutte queste e altre cose quel mondo aveva iniziato ad andare in polvere da un pezzo. Spaccati dal sole e dalla solitudine, i luoghi che non erano mai stati ospitali, ebbero alfine una scossa definitiva dalle viscere della terra. Quando avvenne, però, su qualche casa già si vedeva, con l’orgoglio dei proprietari, l’antenna televisiva, e si capiva da subito che non era la stessa cosa della radio. I maschi cominciarono a tagliarsi i mustacchi. Bisognava apparecchiare la tavola bene la sera, all’ora del telegiornale; che vergogna se avessero visto una tavola in disordine: così la pensavano le donne più anziane. Nei campi cominciavano a sentirsi i rumori dei motori e dalla forza degli uomini si passava al mito della macchina. Con stupore e ammirazione. Anche con paura. Le prime pompe per l’acqua a petrolio avevano fatto molti morti. Se si spegnevano, nei pozzi larghi e profondi in cui erano state calate, chi scendeva nel pozzo senza sapere che l’aria era irrespirabile sveniva e finiva in acqua, affogando con chi si calava, inconsapevole a sua volta, per tentare di salvarlo. Qualcuno nel pozzo si era già gettato per aver sbagliato a seguire quelli che venivano a fare proposte ingannatrici per acquisti sbagliati o perché una figlia, aderendo a costumi inaccettabili, aveva fatto le corna alla famiglia. Fantasmi di provenienza ignota avevano iniziato a popolare un mondo immobile per secoli e quando la terra si rivoltò quel mondo era già pieno di crepe. Le crepe più larghe e profonde le aveva fatte e le faceva chi menava il gioco di quel cambiamento e ne approfittava: pochi, a volte uno solo, e i suoi faccendieri. A distinguerli era il fatto che erano di quel mondo pure loro, imparentati e vicini, parevano seri, conosciuti e affidabili e riuscivano perciò a ottenere quello che volevano. La gente a loro credeva, di loro si fidava, parlavano lo stesso dialetto e sapevano usare le parole giuste, sapevano avere il miele in bocca e il rasoio in mano, per portare una popolazione per la maggior parte analfabeta e semplice dove volevano loro. In realtà la distanza tra chi dominava, i suoi faccendieri e la gente comune era un abisso. Non c’entravano niente con la povera gente della quale si vergognavano, loro calcolatori scaltri e furbi e la gente ancora consegnata alla magia che aiuta gli uomini, da sempre, a far fronte alla durezza e alla avversità della vita. Quello che già succedeva quando il terremoto portò la sua morsa di distruzione, era il fatto che le persone non erano più al loro posto. La gente comune sentiva di non essere a posto di fronte a quello che il mondo pareva richiedere; i dominatori e i loro leccaculi dominavano la situazione ma sapevano di essere i pesci piccoli di regole e sistemi più grandi di loro. La fine di un mondo era cominciata e tutti erano lì, ma non erano presenti, come non lo erano stati, del resto, quando quel mondo era stato il loro mondo. La presenza si era persa da tempo e poi, chissà se c’era mai stata.   

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