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E’ lo strano destino che spetterà al vecchio alfiere del federalismo europeo, quello di essere riconosciuto come il padre dell’Europa, tanto che alla sua figura è dedicato uno degli edifici che ospita a Bruxelles il Parlamento Europeo, e al tempo stesso di non trovare per tutto il suo lungo cammino una piena cittadinanza politica. Ricordato sì nelle cerimonie, e persino sui francobolli, ma senza che il federalismo europeo diventasse cultura politica diffusa. Vedo quel mare, comprendo quello stato d’animo.

In quello sguardo "europeo ed italiano" si poteva rintracciare l’orgoglio del riscatto del sud e di un meridionalismo che si era nutrito di oriente (Gaetano Salvemini), c’era il messaggio culturale della coscienza di classe e nazionale di Antonio Gramsci, c’era l’idea federalista del potere diffuso di Silvio Trentin, si scorgeva la coerenza fra i mezzi e i fini che più tardi fu alla base del pensiero nonviolento di Aldo Capitini.  

Quello stesso mare che accompagnò l’esilio di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e di Eugenio Colorni, non ha mai smesso in realtà di inviarci messaggi, che però non abbiamo sempre saputo raccogliere.

  • Nel secondo dopoguerra, quando i paesi europei hanno pensato bene di riversare altrove la falsa coscienza dell’olocausto, creando nuove sofferenze.
  • Negli anni ’90, quando la tragedia di Sarajevo (la Gerusalemme d’Europa, del cui assedio ricorre quest’anno il ventennale) ha chiuso il secolo che proprio lì era iniziato con l’assassinio del 28 giugno 1914 e che diede il via alla prima guerra mondiale.
  • In questi anni, nel suo diventare l’abisso dei disperati delle carrette del mare, alla ricerca di un sogno di benessere in un mondo sempre più diviso fra inclusione ed esclusione. Messaggio che non abbiamo saputo raccogliere nemmeno di fronte ad una primavera nonviolenta che pure ha cambiato il volto del Mediterraneo.

In ognuna di queste circostanze, lo dico con rammarico,  l’Europa non c’è stata, era distratta o guardava altrove.

Fra ipocrisia e piccoli calcoli, ci sono stati invece i paesi europei, nell’intento di andare a vedere cosa poteva venirne in termini di influenza politica e di vantaggi economici. Senza nemmeno esitare a muovere i cacciabombardieri contro l’amico di ieri, pur di accaparrarsi qualche diritto sulle materie prime. Che pure non riescono a nascondere il vuoto che oggi regna sovrano, tanto sul piano delle scelte comunitarie, quanto attorno al fallimento delle politiche di prossimità.

Malgrado ciò, i paesi europei non sono in grado di far fronte ai fattori di crisi e cresce la percezione che senza un disegno europeo e mediterraneo da soli non ce la possano fare:

– ad affrontare una crisi finanziaria che richiede profili sovranazionali ed ancoraggi territoriali;

– ad dare risposte oltre l’emergenza verso flussi migratori che hanno ragioni strutturali;

– ad proporre soluzioni di pace laddove i conflitti diventano sempre più laceranti ed hanno da tempo superato i confini nazionali.

Il Manifesto di Ventotene "Per un’Europa libera e unita" guardava lontano. Era in primo luogo una proposta di pace. In quell’agosto del 1941, nel pieno della seconda guerra mondiale scoppiata ancora una volta nel cuore dell’Europa, Spinelli e compagni pensavano all’Europa politica come soluzione che potesse dare una prospettiva di prosperità e di cooperazione, andando oltre i nazionalismi che quella guerra generarono. Un appello a superare l’idea dello "spazio vitale" delle singole nazioni, ovvero l’egemonia economica e finanziaria degli Stati.

Infine uno spazio culturale aperto al proprio mare, oltre quella dimensione coloniale che aveva portato al nefasto disegno imperiale dell’Italia e delle altre potenze europee.

Il sogno di Spinelli, Rossi e Colorni non è ancora diventato realtà. Dobbiamo riconoscere che ci sono stati momenti nei quali il progetto europeo è sembrato a portata di mano. Oggi lo avvertiamo più lontano.

Lo è soprattutto nella coscienza dei cittadini europei, perché non sono affatto cresciuti uno spazio comune, un senso di cittadinanza, un pensiero europeo. Così come lontana appare quella sintesi fra storie e culture europee e mediterranee che dell’Europa costituiscono la grande ricchezza. O almeno di quell’Europa che nel messaggio mitologico si proponeva di far incontrare oriente e occidente.

L’Europa non è nei cuori degli Europei. Vi consiglio di leggere un documento del 2009 realizzato dal Parlamento Europeo, un sondaggio post elettorale fatto su 26.830 cittadini del vecchio continente.

Oltre al dato, comunque eclatante, rappresentato dalla percentuale dei votanti nei 27 paesi dell’Unione (il 43%), emerge che solo un 1/3 dei paesi supera il 50% (e fra questi Francia, Paesi Bassi, Spagna, Portogallo, Regno Unito e Polonia sotto la media europea). In questo sondaggio risultano di particolare interesse le opinioni espresse in ordine al Parlamento e all’Unione Europea da cui emerge che il grado di fiducia verso le istituzioni europee fatica a raggiungere il 50%. Ora, dobbiamo dirci, amaramente, che dal 2009 ad oggi il clima è oltremodo cambiato, ma in negativo.

Il 9 maggio 1950 Robert Schuman proponeva di creare una nuova organizzazione in grado di promuovere le relazioni pacifiche fra gli stati europei. Quella dichiarazione che noi oggi qui ricordiamo è considerata l’atto di nascita dell’Unione Europea.

« Sessanta due anni sono passati da quel giorno – ha scritto Marco Brunazzo qualche giorno fa in un fondo dedicato al 9 maggio (http://www.politicaresponsabile.it/) – e, purtroppo, l’Europa dimostra tutta la sua et&agrave

3 Comments

  1. stefano fait ha detto:

    “Leggendo il suo articolo mi pare che per lei il federalismo sia una soluzione finale. Io credo che sia un mezzo: uno dei mezzi. Se ci guardiamo attorno, ci accorgiamo che il potere oppressivo non è soltanto prerogativa degli Stati nazionali. Una grande impresa oggi ha la possibilità di abusare del potere più dello stato stesso. Le nostre costituzioni accordano garanzie contro l’abuso di potere da parte degli organi dello Stato. Non ne accordano contro l’abuso di potere da parte dei grandi gruppi capitalistici. Il superamento dello Stato nazionale è una faccia del problema del potere. O i federalisti credono che sia una soluzione totale? Io non ne sono del tutto convinto”.
    Norberto Bobbio ad Altiero Spinelli, 15 dicembre 1957

    “Ernesto [Rossi] mi consegnò un grosso plico col famoso programma [di Ventotene]. Che lessi allibito. Vi si osservava innanzitutto che il fascismo non poteva essere sconfitto e superato se non imitandone la disciplinare salvezza data da un capo investito di una superiore autorità ed al quale fosse prestata obbedienza assoluta. Per cui, sia per determinare la caduta del potere fascista, sia per organizzare la successione, doveva costituirsi, sotto la direzione di quel capo assoluto, una vera e propria ferrea dittatura della durata almeno di un decennio – dopo l’avvento del nuovo potere – che studiasse e preparasse un ordinamento democratico da concedere, nei suoi perfetti lineamenti, al popolo finalmente sovrano…Rilevai senz’altro la artificiosa incongruenza di quella barocca costruzione. Non mancai di rinfacciare a Ernesto suggerendogli di mettere in epigrafe del macchinoso programma la pagina di “Mein Kampf” di Hitler in cui questi sostiene che il regime nazista era il più democratico che si potesse pensare, perché, avendo il popolo tedesco liberamente scelto il suo Führer, questi solo doveva assumere intera la responsabilità del governo essendo però di esso indiscusso reggitore, guida dotata di assoluto potere, anche se poi dovesse con la propria testa e coi propri beni rispondere di eventuali errori commessi (sulla pelle però dell’intera nazione). Ovviamente, aggiunsi, dopo dieci anni di dittatura la nuova democrazia razionalmente studiata e delineata con tanta sicurezza ben difficilmente si sarebbe dimostrata adatta ad un popolo a lungo tenuto nelle dande, per cui un nuovo periodo di dittatura sarebbe stato necessario per gli adattamenti del caso, e così via per l’eternità. […]. Il nuovo intento federalista [nella seconda stesura del Manifesto, NdR] partiva dalla premessa che, a guerra finita, una nazione, l’Italia, dovesse prendere l’iniziativa di portare l’idea federativa a compimento, anche con la forza, se necessario, secondo una tradizione giacobina di cui si rilevava il fortunato successo, almeno iniziale. E, conseguenza del principio stabilito, l’uscita eventuale dalla federazione costituita non doveva essere consentita. Obiettai anzitutto che l’azione giacobina nel secolo XVIII era finita male nonostante l’iniziale entusiastico successo. In secondo luogo che dalla guerra tutte le nazioni sarebbero uscite stremate e che l’idea stessa di una nuova iniziativa di forza non sarebbe stata accolta con favore da nessuno. […]. In linea generale osservavo che una forma di unificazione dell’Europa richiedeva una condizione di relativa omogeneità politica, economica e sociale tra le diverse nazioni, omogeneità che era ben lungi dall’esistere…per cui tutto il progetto doveva essere avviato con ben altre premesse che quelle di un esasperato volontarismo senza reale fondamento nella prevedibile situazione dopo il bagno di sangue che ancora durava”.
    Riccardo Bauer, uno dei costituenti-ombra, ricordi di Ventotene

    “Può sorgere naturale il dubbio, fondato, che Spinelli in fin dei conti nutra un malcelato disprezzo per la pratica democratica e per il sistema rappresentativo”
    Piero S. Graglia (a cura di), Machiavelli nel secolo XX. Scritti dal confino e dalla clandestinità. 1941-1944, il Mulino, Bologna 1993

    Tocca a noi essere i giganti, caro Michele, non c’è nessun salvatore che ci guidi e non c’è nessun modello sulle spalle del quale possiamo sederci.
    Dobbiamo fare in modo che ci sia un futuro per i bimbi di oggi e se poi saranno così fessi da vederci come giganti, noi nanerottoli di buona volontà, almeno vorrà dire che abbiamo trasmesso loro un mondo migliore di questo.
    E in fondo non è davvero poco.

  2. Michele ha detto:

    Caro Stefano, condivido con te che non ci sono salvatori e modelli che tengano. Ma l’elaborazine del passato è quel che ci permette semplicemente di provare ad essere, né giganti né nanerottoli, protagonisti del nostro tempo. Per questo occorre riprendere i picchi del pensiero, soprattutto di quello che ha avuto meno cittadinanza, e rimetterci mano andando oltre.
    Nel rileggere il manifesto di Ventotene, in questi anni, devo confessare che ho provato un sentimento di tenerezza. Ma nel 1957 fra Bobbio e Spinelli aveva ragione il secondo, se non altro perché in quegli anni l’eretico era il secondo, nel suo tentativo disperato di coniugare anticapitalismo e libertà.
    Non ho mai pensato al Manifesto di Ventotene come a quello di Marx e Engels, ma semplicemente ad un’intuizione sulla quale lavorare per costruire nuovi pensieri. Non a caso nel mio scritto ho fatto riferimento a Salvemini, Gramsci, Trentin e Capitini, storie e pensieri molto diversi fra loro, ma lucidi protagonisti del loro tempo.
    Temo invece che la politica fatichi a leggere persino Bruno Vespa.
    Grazie, Stefano, per l’attenzione che mi dedichi.

  3. stefano fait ha detto:

    se ti dedico attenzione è perché, assieme a Oskar Peterlini e pochi altri, mi pare che tu sia uno di quei (pochi, appunto) politici locali che non si è rassegnato alla “fine della politica” e alla “fine della storia” ma ha un progetto in mente, un progetto che in gran parte condivido e che non voglio che sia cooptato, dirottato, manipolato, fatto deragliare.
    Se non facciamo rientrare la politica dalla porta sul retro o dalla finestra, avremo sulla coscienza molte, moltissime vite distrutte.