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23 Aprile 2012Il materiale esportato verso paesi in guerra oppure attraversati da conflitti interni è ampio e consistente. Mentre la ditta italiana Area Spa, specializzata in sicurezza informatica, lavora per la sanguinaria repressione del regime di Assad in Siria, Giorgio Beretta dalle pagine di Unimondo traccia il bilancio delle armi italiane esportate nelle zone turbolente di Africa e Medio Oriente.
Nella categoria CH254 dell’Istat sono riportate per il 2011 esportazioni dalla Provincia di Brescia di «armi e munizioni» ai seguenti paesi del Nord Africa (per un valore complessivo di 6.808.503 di euro): Marocco (3.608.893 euro), Algeria (2.865.344 euro), Egitto (332.386 euro) e Tunisia (1.880 euro). E, per quanto riguarda l’area del Medio Oriente (sempre nel 2011 dalla Provincia di Brescia) sono state esportate «armi e munizioni» per un valore complessivo di 11.190.345 di euro, nello specifico: Emirati Arabi Uniti (4.619.238 euro), Giordania (1.447.661 euro), Libano (978.324 euro), Kuwait (969.360 euro), Oman (609.801 euro), Qatar (501.810 euro), Bahrain (161.721 euro) e altre per valori minori a Giorgia e Armenia senza dimenticare i 1.847.150 euro di esportazioni di queste armi a Israele.
Suscitano diversi interrogativi l’invio di ampie forniture di armi in paesi come l’Algeria dove lo scorso anno le manifestazioni popolari hanno chiesto la fine dello stato di emergenza e le dimissioni del presidente Abdelaziz Bouteflika. E andrebbe chiaramente spiegato a quale milizia o fazione militare sono state vendute quelle armi e munizioni per quasi 1 milione di euro esportate in Libano, dove dal 2006 è stanziato un contingente militare italiano nell’ambito della missione di peace-keeping dell’Onu denominata Unifil.
Uscendo dall’ambito mediorientale – conclude Beretta – andrebbe urgentemente chiarito di che tipo siano e a chi siano state destinate quelle armi per oltre 1 milione di euro (1.050.758 euro) esportate da qualche azienda bresciana in Bielorussia tra aprile e giugno 2011, cioè pochi giorni prima che l’Unione Europea decretasse il 20 giugno un embargo di armi verso il paese ex-sovietico a causa delle violazioni dei diritti umani e della repressione messa in atto dal regime del presidente Lukashenko.
Come riporta la decisione del Consiglio dell’Unione (2011/357/CFSP) che impongono l’embargo, sono proibite verso la Bielorussia «la vendita, la fornitura, il trasferimento o l’esportazione di armi e relativo materiale di qualsiasi tipo, comprese armi e munizioni, veicoli ed equipaggiamenti militari, materiale paramilitare e relativi pezzi di ricambio di cui sopra, nonché attrezzature che possono essere utilizzate per la repressione interna, da parte di cittadini degli Stati membri o in provenienza dal territorio degli Stati membri o mediante navi o aeromobili di bandiera, siano essi originari o meno nei loro territori». Da un nostro primo esame dei dati, pare si tratti in gran parte di pistole e rivoltelle, ma va fatta assoluta chiarezza da parte delle autorità e delle associazioni armiere.
Non vorremmo si trattasse di un’esportazione simile a quella degli 11.200 pezzi tra pistole e fucili semiautomatici prodotti dalla ditta Beretta di Gardone Val Trompia per un valore di oltre 7,9 milioni di euro esportate come «armi leggere e non militari» ma consegnate alla Direzione Armamenti della Pubblica Sicurezza del colonnello Gheddafi – aggiunge Carlo Tombola, coordinatore scientifico di Opal. Né vorremmo venire a sapere dalla stampa internazionale che queste armi «civili» prodotte ed esportate dalla provincia di Brescia sono state poi «triangolate» e finite nelle mani di altri destinatari e anche di terroristi, com’è accaduto nella vicenda delle «Beretta fantasma» (vedi il processo che s’è aperto sempre a Brescia in queste settimane). Il fatto che non sia ancora stata resa nota la Relazione annuale sulle esportazioni di armi italiane ad uso militare – che avrebbe dovuto essere pubblicata per il 31 marzo – mentre è stato presentato in Parlamento un Disegno di Legge che delega al Governo la riforma della legge 185/1990, non depone a favore della trasparenza su un settore così delicato.
* Fabio Pipinato è direttore di Unimondo