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Come accade in occasione di commemorazioni così importanti, saranno molte altre le iniziative in programma. Tra queste anche un incontro degli ex corrispondenti di guerra, che seguirono per le varie testate internazionali il disgregarsi della Jugoslavia. Un impegno professionale pagato, non da pochi, con la propria vita.

A questo proposito Tim Judah, noto giornalista del britannico The Economist, nei giorni scorsi sottolineava una preoccupazione che ritengo condivisibile. «Ciò che temo – ha scritto Judah – è che ai lettori e ai telespettatori dei materiali che emergeranno da quell’evento, verranno servite le solite storie rimaneggiate raccontate da corrispondenti nostalgici che non hanno idea di cosa sia la Bosnia oggi».  Se è importante ricordare – e comprendere – cosa accadde vent’anni fa, non bisognerebbe infatti dimenticarsi della Bosnia Erzegovina oggi. Un Paese ancora frammentato attorno a linee etniche, governato da logiche di separazione e da politiche nazionalistiche. In questi giorni, sulle pagine web di Osservatorio Balcani e Caucaso, abbiamo dedicato ampio spazio alla Bosnia, con approfondimenti dove emerge, tra le altre cose, che la «multiculturalità» del Paese e della sua capitale sia poco più di un’etichetta che le è rimasta addosso dal passato e che piace molto agli internazionali.

Caso emblematico di questo, nelle ultime settimane, sono state le dimissioni del ministro della Cultura del Cantone di Sarajevo, Emir Suljagic, a seguito di minacce di morte ricevute. La «colpa» di Suljagic, uno dei sopravvissuti al massacro di Srebrenica, è stata la proposta di togliere dal calcolo della media scolastica il voto dell’ora di religione, così da equiparare chi sceglie l’insegnamento della religione e chi non lo fa. Oggi la Bosnia poggia su una sorta di congelamento di quanto sancito 17 anni fa con la firma degli Accordi di Dayton che posero fine alla guerra. Uno stato, due entità, un distretto autonomo, dieci cantoni ed innumerevoli livelli di potere: un vero mostro istituzionale. Che ha portato alla paralisi. Per questo quello attuale sembra essere un continuo dopo-guerra, combattuto con le armi della diffidenza e dell’esclusione.

Non è un caso che in merito all’integrazione europea la Bosnia sia il fanalino di coda dei Balcani occidentali. È l’unico Paese dell’area a non aver ancora posto la candidatura a membro dell’Unione europea. Ma la Bosnia non è finita con la guerra. È terra di scrittori, poeti, registi, musicisti e artisti. E di centinaia di giovani che desiderano un futuro migliore, che non si identificano nelle strette griglie del nazionalismo e che credono in una prospettiva europea. I vent’anni da quel tragico assedio sono quindi un’occasione fondamentale per ricordarne le vittime, condannare le responsabilità e riflettere su cosa è la Bosnia Erzegovina oggi. Per non dimenticare chi, in quel Paese, sta tentando di vivere e non solo sopravvivere ad un difficile passato. Per contribuire ad un’Europa allargata, un’Europa delle minoranze e della cittadinanza, un’Europa di cui Sarajevo possa tornare ad essere la capitale.

Luka Zanoni è Direttore della testata Osservatorio Balcani  e Caucaso www.balcanicaucaso.org

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