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Pensieri ad alta voce

Perché la politica (ma lo stesso potremmo dire per la società civile) non ha saputo prevedere una crisi finanziaria globale così acuta? Amo il Festival dell’economia, ma nemmeno pochi mesi (settimane forse) prima di quel che poi è accaduto con la crisi dei subprime, nessun economista (tranne qualche rara eccezione) ha messo in guardia rispetto a quel che stava accadendo… E perché nonostante fosse chiara la natura degli eventi si è continuato a parlare di crisi congiunturale? Perché si è smarrita la capacità di leggere il proprio tempo? E di osare ad immaginare il futuro? Perché si fa così fatica a far nostro il concetto di limite e a ripensare l’economia a partire da quella vera?

Occorre uno sguardo diverso sul tempo, cambiare gli occhiali, rivedere i nostri strumenti interpretativi, sapere che nell’interdipendenza tutto è cambiato, compresa la dimensione, la scala di grandezza dei nodi che affrontiamo che rende obsoleti gli stati-nazione.

Occorre uno sguardo strabico, un angolo di osservazione insieme vicino e lontano, capace di dare profondità a quel che osserviamo.

Occorrono formazione e apprendimento permanente.

2.  Primavere (Ricambio)

"… con internet questa storia di proibire è finita. " Scriveva così qualche anno fa Elias Khoury nella postfazione di "Primavere", libro dell’amico Samir Kassir, il protagonista della primavera di Beirut poi assassinato nel 2005.

Accade che in uno sperduto villaggio della Tunisia un giovane decida che non ne può più delle angherie del potere. E’ una questione di "dignità".

La dignità di Bouazizi diventa la dignità di tutti. Diventa "indignazione".

Non ha bisogno di alcun giornale. Si espande attraverso il tam tam a tutto il mondo arabo. Attraversa il mare e la parola diventa "indignados". Solca gli oceani e arriva a Wall Street.

La primavera diviene la metafora di un cambio, di una nuova stagione. Ci racconta che le distanze non esistono più. Ci dice che oggi non è l’"avere" (il possesso di cose)  a sollevare il mondo ma la "dignità", il diritto di esistere, il diritto ad un futuro.

La politica (e la società civile) non sembra accorgersi di nulla. Si bombarda il dittatore, come se questo portasse alla democrazia. Si curano gli interessi. Perché non va ad ascoltare, per capire, conoscere, comprendere che quel che accade non è altro da noi.

Lo dico con un certo orgoglio: con "Cittadinanza Euromediterranea" eravamo sul pezzo. E nei giorni scorsi, mentre nelle ritualità del movimento ci si occupa solo delle emergenze, ero in Marocco con gli ex emigrati rientrati nel loro paese a parlare di autonomia come modello di autogoverno delle ricchezze di ogni territorio.

3.  Cicli di vita e generazioni (futuro)

Andrea Zanzotto scriveva: "Per andare avanti bisogna procedere  con un piede nell’infanzia, quando tutto sembra grande e importante, e un piede nella vecchiaia estrema, quando tutto sembra niente"

S’intitola così l’edizione 2012 del festival dell’economia. Mi sembra un bel tema. Lo dico perché detesto il concetto di "rottamazione", forse perché col passare del tempo (e col crescere degli acciacchi) temo mi riguardi.

Ma il nodo del ricambio generazionale c’è. Il fatto è che non riguarda solo o tanto le poltrone o i posti di potere, bensì il ben più interessante tema del predisporsi a passare la mano, che poi corrisponde all’elaborazione del proprio tempo.

Il problema è che la mia generazione tende ad occupare il passato, il presente e anche il futuro. Lo fa non solo tenendosi strette le posizioni, ma soprattutto evitando l’elaborazione di un arco di tempo decisivo come sono stati gli anni 60 e 70 di cui la nostra generazione è stata protagonista.

Non si esce davvero dal Novecento senza l’elaborazione di Auschwitz, del Gulag, di Hiroshima.

Non si va oltre gli anni delle grandi promesse di sviluppo infinito (che pure hanno cambiato il mondo, le relazioni sociali, il nostro stesso modo di vivere) se non sapremo elaborare quel tempo, a cominciare dal mettere in discussione l’assurda lettura degli anni ’70 ridotti e semplificati in "anni di piombo". Possiamo definire così la riforma Basaglia o lo Statuto dei Lavoratori?

Lo stesso potremmo dire per gli anni ’90. Non sapremo andare oltre lo scontro di civiltà (e il paradigma dello stato-nazione) senza aver imparato nulla dalla lezione che costituisce la guerra dei Balcani e l’assedio di Sarajevo (a cominciare dal suo carattere post moderno) e della quale invece non abbiamo capito un fico secco.

Se noi sequestriamo il passato perché ancora non ci diamo la distanza necessaria all’elaborazione, le generazioni che seguono rischiano di corrispondere all’efficace descrizione che ne faceva su "politica responsabile" Giulia Merlo.

Correndo noi il rischio, un po’ più vecchi, che ci accada come ne "Il vecchio e il bambino" di Francesco Guccini, quando il bambino nell’ascoltare le storie di vita e di un tempo ancora segnato dalle stagioni diceva al vecchio "mi piaccion le fiabe, raccontane altre".

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