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Una «comunità di progetto» per il nuovo statuto

L’interrogativo assume un connotato di particolare attualità e rilevanza se inserito nel contesto di quel forte e diffuso malessere che affligge la quasi totalità delle democrazie occidentali.

Rispetto a tale contesto, infatti, anche la peculiarità della nostra speciale Autonomia non sembra di per sé in grado di assicurare né efficienza all’attività politica e di governo, né un corrispondente ed adeguato sostegno popolare.

La riprova di quest’ultimo assunto, al di là della deprimente cronaca quotidiana, può essere più compiutamente apprezzata indagando tra i fenomeni dell’ormai strisciante paralisi politico-amministrativa, del crescente astensionismo, del drastico calo di iscrizioni a partiti e sindacati, dell’afasia delle associazioni di categoria e dei cosiddetti corpi intermedi e, non da ultimo, del preoccupante arresto della mobilità sociale e dei conseguenti processi di marginalizzazione.

Le cause del malessere di cui soffre la nostra Autonomia speciale sono evidentemente molteplici. Semplificando, esse possono essere ricondotte a due grandi questioni: da una parte al progressivo esaurimento delle istanze geo-politiche su cui, quasi un secolo fa, si è elaborata e legittimata la soluzione alle questioni che gravitavano intorno alla “marca confinaria” del Brennero e, dall’altra parte, al mancato adeguamento delle istituzioni politiche regionali, provinciali e locali alle trasformazioni economiche e sociali innescate vuoi dalla globalizzazione, non solo dei mercati, vuoi dalle innovazioni tecnologiche, soprattutto nel campo delle comunicazioni di massa, vuoi – infine – dal paradigma dell’individualismo.

Entrambe le questioni chiamano in causa l’Autonomia intesa – cito un passaggio del bando del Consiglio provinciale all’associazionismo trentino – come “laboratorio di innovazione sui temi cruciali del nostro tempo”.

Se innovare significa applicare nuovi processi, metodi e modelli, il processo di aggiornamento dello Statuto speciale di Autonomia diventa dunque il banco di prova per immettere nell’attuale impianto istituzionale di Province e Regione gli ingredienti in grado di debellare quel malessere che affligge tanto il nostro sistema quanto le democrazie occidentali offrendo di volta in volta l’innesco a derive populiste, plebiscitarie o tecnocratiche.

Personalmente, dubito che questi ingredienti possano essere elaborati dall’ennesimo Centro studi di cui, per altro, le Provincie di Trento e Bolzano risultano già egregiamente equipaggiate.

Avverto invece l’urgenza di una maggiore infrastrutturazione democratica di quello spazio pubblico che le istituzioni politiche tendono ormai a riconoscere solo attraverso il circuito del consenso elettorale.

Infrastrutturare lo spazio pubblico significa riconoscere forme di democrazia partecipativa ed inclusiva – forum civici, assemblee comunitarie, reti di autogestione, comunità di progetto – che, integrando la democrazia del consenso fondata sulla sola delega, consentono di immettere nei processi decisionali le competenze e le energie che, complessivamente considerate, costituiscono il capitale sociale ed intellettuale della nostra comunità autonoma.

Credo che questa visione debba qualificare anche il lavoro della Consulta alla cui costituzione e attività, tornando ai tre membri che sabato prossimo dovranno essere designati dall’assemblea dell’associazionismo trentino, sarà importante guardare non, per l’appunto, con la logica della delega ma con la disponibilità al supporto costante ed alla rotazione tra candidati idonei fino all’attivazione di una comunità di progetto aperta al confronto civico e alla costruzione di proposte condivise.

* Associazione “territoriali#europei”

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