Stili di vita e giustizia globale
29 Novembre 2011La Chiesa tra motrice e rimorchio
1 Dicembre 2011Non per questo, però, si deve poi banalizzare la questione dell’eutanasia, e pensare che non ci sia nessuna differenza tra il lasciar morire e il far morire, il suicidio e il suicidio assistito. È per questo che in Francia, dal 2005, esiste una legge che cerca di mettere un po’ di ordine all’interno del dibattito sull’eutanasia e che distingue in modo chiaro il suicidio assistito, che resta illegale, dalla fine di ogni tipo di accanimento terapeutico – anche se poi interrompere le cure ha come conseguenza la morte del paziente. Abbandonando il tradizionale paternalismo, la Francia accetta l’idea che ogni persona abbia il diritto di esprimere il proprio punto di vista e che il medico non debba imporre a nessuno la propria concezione della morale: le cure possono essere interrotte o mai intraprese se un paziente lo richiede, quando è in fase terminale di una malattia incurabile. Il medico può inoltre, sempre in accordo con il malato e la famiglia, somministrare forti dosi di analgesico per lenire la sofferenza, anche se la somministrazione "può avere come effetto secondario il fatto di accorciarne la vita", come si legge all’art. 2 della legge del 22 aprile 2005. Invece di proclamare in modo astratto il valore inalienabile della vita, la legge francese cerca di prendere in considerazione la specificità individuale di ogni malato, anche se non ammette, come è invece il caso della Svizzera, di "far morire" coloro che, in determinate condizioni, lo domandano.
Che dire allora di fronte al suicidio assistito di Lucio Magri? Pare che la depressione del fondatore del Manifesto fosse profonda e incurabile. Pare che Magri fosse scivolato nel baratro della disperazione dopo la morte della moglie. Pare che volesse farla finita. Che di fronte all’abisso ormai incolmabile tra quello in cui credeva e la realtà, la vita gli fosse diventata insopportabile. Ma cosa chiede esattamente una persona che dice di "voler morire"? Si può rispondere con un atto, ad una domanda che a volte "chiede altro"? Perché tante volte dietro al "voglio farla finita" c’è una moltitudine di cose. C’è la delusione di chi avrebbe voluto che la realtà fosse diversa. C’è lo sconforto della solitudine. C’è il bisogno di un ascolto vero… Tutte quelle cose che la morte non dà, perché con la morte tutto finisce e non c’è più la possibilità di tornare indietro.
Al contempo, se la morte sembra l’unica possibilità per mettere un termine ad una sofferenza che non si sopporta più, si può semplicemente decidere che "non si fa", perché la vita è "sacra"? Il padre della psicanalisi, Freud, ci ha insegnato che talvolta il suicidio è l’unica via d’uscita per non morire psichicamente. In casi come questi, quando la domanda è lucida, ripetuta, confermata più volte, perché un medico non dovrebbe aiutare una persona a partire, invece di obbligarla a vivere una vita che, per chi chiede di andarsene, non vale più la pena di essere vissuta?
Le domande sono tante. E non è facile trovare delle risposte. Come sempre, quando si è di fronte a quello che gli specialisti chiamano un "dilemma morale", la buona soluzione non esiste. Perché è difficile chiedere ad un medico, la cui vocazione è in fondo quella di "far vivere", di essere poi anche capace, in determinate circostanze, di "far morire". Ma è anche difficile dire a chi non vuole più vivere: dai, un piccolo sforzo! non ti rendi conto che non spetta a te decidere come e quando andartene? Perché non esiste un "diritto di morire". Su questo punto non ci sono dubbi. Ce lo ha recentemente ricordato anche la Corte europea dei Diritti dell’Uomo. Ma non esiste nemmeno un "dovere di vivere", né un "dovere di far vivere". Soprattutto quando una persona ha deciso altrimenti. Nei Fratelli Karamazov, Dostoevskij scriveva: "Ama la vita più del senso, e anche il senso troverai". Ma quando la vita non la si ama proprio più, come si fa a darle ancora un senso?