La centralità dell’agricoltura
24 Gennaio 2012La montagna fra speranza e disincanto
24 Gennaio 2012La gente che ha sempre abitato questo territorio lo sapeva bene: è sufficiente osservare la collocazione degli insediamenti storici – fino alla fine dell’Ottocento, tanto per intenderci – per capire come i nuclei abitati non fossero collocati a caso. Essi rispondevano ad alcune semplici regole che tuttavia garantivano una sicurezza e una buona qualità della vita agli abitanti. I centri abitati del Trentino erano, quindi, collocati in zone soleggiate (per sfruttare al meglio l’energia naturale del sole), in posizioni elevate rispetto ai corsi d’acqua (soprattutto quelli più imprevedibili, come i torrenti) e lontano dalle zone soggette a frane e smottamenti.
Queste regole del «buon costruire», sedimentate nella tradizione e la cui conoscenza era garantita da una trasmissione orale comunitaria, sono state ben presto, nella Modernità, dimenticate. A partire dal Novecento, infatti, i territori si sono sviluppati secondo regole urbanistiche che spesso avevano poco a che fare con queste semplici norme, ma che, semmai, assecondavano altre opportunità economiche generate dalla rendita dei suoli a destinazione edificabile.
Così anche il Trentino ha conosciuto una stagione di grande sviluppo edificatorio che in qualche caso ha dimenticato le priorità imprescindibili degli insediamenti di montagna: il risparmio energetico e la sicurezza. Se oggi, infatti, guardiamo con attenzione all’urbanizzazione delle nostre valli non possiamo che nutrire una certa apprensione: siamo certamente lontani dalla maniera con cui sono state cementificate intere regioni della nostra penisola. Ma il livello di infrastrutturazione, la presenza di grandi manufatti artigianali e industriali, la diffusione massiccia dell’edificio residenziale isolato e singolo nel territorio, non possono che portarci a considerare con maggiore attenzione le modalità con cui i piani regolatori comunali vengono implementati, ed obbligarci a riflettere su quali siano realmente oggi le priorità insediative dei nostro territorio.
In molte valli ad una urbanizzazione massiccia dei territori corrisponde un progressivo abbandono dei centri storici. Alla mixité delle funzioni vengono ancora preferiti i grandi interventi monofunzionali come aree artigianali e commerciali che vanno a costruire brani territoriali molto frequentati in alcuni momenti della settimana e deserti in altri frangenti.
Il grande intervento infrastrutturale viene ancora preferito rispetto a una riorganizzazione del sistema infrastrutturale esistente creando così numerosi, e spesso contrastanti, livelli di collegamento stradale che aumentano i suoli impermeabili e caratterizzati da un’alta pressione antropica.
Se la sostenibilità urbanistica diventa, auspicabilmente, una priorità dello sviluppo del nostro territorio, la limitazione del consumo di suolo, ovvero l’utilizzazione di suolo extraurbano, agricolo o naturale, per nuovi usi insediativi, non può che essere una delle scelte strategiche da affiancare a quella delle politica della mobilità (che deve essere sempre più «collettiva», meno inquinante e meno energivora) e a quella delle politiche energetiche urbane.
Il suolo, infatti, è una risorsa estremamente preziosa, non riproducibile e non rigenerabile, soprattutto in un contesto, come quello trentino, dove la maggior parte del territorio è occupato da rocce, boschi, laghi e fiumi.
Tuttavia non è più possibile pensare di relegare alle sole misure di tutela la salvaguardia e lo sviluppo dei nostri territori. È oggi più che mai opportuno sviluppare misure di costruzione di un nuovo ambiente urbano e territoriale che fondino nel progetto sostenibile e di qualità i propri presupposti d’azione. Occorre, in altre parole, rimettere al centro dell’azione di pianificazione il progetto di rigenerazione qualitativa dei tessuti territoriali, che sappia fare sintesi fra la qualità dell’architettura, la sostenibilità dei processi costruttivi, il rispetto del contesto sociale e paesaggistico dentro il quale si inserisce.
In questo senso oggi abbiamo un’arma in più. La Riforma istituzionale del 2008 che ha introdotto le «Comunità di valle», può essere un’occasione importante per affrontare con incisività le sfide di questo delicato passaggio storico. Uno dei nuovi strumenti sui cui può contare la pianificazione, infatti, è il «Piano Territoriale della Comunità», un piano urbanistico «intermedio», collocato tra i piani regolatori comunali e il Piano urbanistica provinciale. Uno strumento che consente di pensare per aree sovracomunali e può inserire nella dialettica urbanistica progetti e visoni che i singoli comuni non avrebbero mai la forza di promuovere e di implementare.
Serve, ovviamente, un cambio radicale di mentalità. L’urbanistica non deve essere più vista come luogo dove una maniera di fare politica cerca e trova consenso. Ma lo spazio nel quale la comunità progetta con arguzia i limiti in cui intende svilupparsi e crescere. Per evitare il degrado delle periferie, gli scempi al paesaggio, l’assenza di politiche energetiche anche a piccole e media scala, la carenza di mobilità efficace, efficiente e sostenibile. Se le Comunità sapranno fare sintesi di queste urgenze, esse avranno non solo trovato un senso alla loro esistenza, ma anche un preciso compito storico e culturale, senza il quale la «peggio» modernità rischia di travolgerle.
* Alessandro Franceschini è architetto e insegna Tecnica urbanistica presso l’Università di Trento