Barack Obama all'Università del Cairo
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Crisi e beni comuni
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Il mondo, dieci anni dopo…

Ben poco. L’America appare segnata dall’infinita guerra al terrorismo, costata almeno tremila miliardi di dollari e una secca perdita di credibilità; dalla parallela crisi economica, con un debito pubblico pari al prodotto interno lordo e il rischio di una seconda recessione alle porte; dalla crescita di vecchie o nuove nazioni, Cina in testa, che fino a pochi anni fa non erano strategiche nel definire l’agenda planetaria.  Il celebre sogno americano, che per oltre un secolo ha alimentato la fede della "nazione indispensabile" in se stessa, sta scolorando. Siamo al dream over, come segnalato nell’omonimo ultimo volume dei Classici di Limes: ma un paese che crede sempre meno in se stesso difficilmente può contribuire a costruire un pianeta migliore. Alcuni parlano, con un certo ottimismo, di mondo multipolare. In realtà, sfumata l’utopia del mondo monopolare, retto dal solo centro americano, sembra semmai materializzarsi una maggiore ingovernabilità nei rapporti internazionali, più che un altro e più equilibrato ordine. I fattori e i soggetti di potenza si sono moltiplicati, complicando l’anarchia geopolitica. Non solo Stati, anche  mafie, organizzazioni non governative, grandi aziende multinazionali e non ultime le agenzie di rating sono in grado di influenzare, spesso in modo decisivo, i rapporti di forza su scala regionale e/o mondiale.
La crisi economica scoppiata nel 2008 non è stata globale. Partita dal sistema bancario privato americano, si è diffusa soprattutto in Europa. L’Asia emergente o già emersa ne è stata toccata marginalmente, e per pochi mesi. Cina e India sono ripartite al galoppo, mentre nordamericani ed europei, sopraffatti dalla crisi dei debiti sovrani, accumulati anche per salvare alcune banche private "troppo grandi per fallire", stentano a riprendere un percorso di crescita. Stiamo dunque assistendo a un formidabile spostamento della ricchezza dal Nord euroatlantico verso l’Oceano Indiano e l’Estremo Oriente, senza dimenticare il Brasile e altre entità un tempo relegate nel Terzo Mondo.
 Tra i vari paradossi prodotti da questa oscillazione geoeconomica, la principale sta nel rapporto fra America e Cina. I due paesi sono legati da una simbiosi economico-finanziaria che rende il loro rapporto, di fatto, troppo intrinseco per immaginare la vittoria dell’uno sull’altro.
 La crisi americana è quindi vissuta con preoccupazione a Pechino. Non solo perché le casse dello Stato cinese sono piene di dollari che rischiano di perdere buona parte del loro valore, ma soprattutto perché in questi dieci anni Pechino si era abituata a veleggiare di conserva sulla scena mondiale, nella scìa del colosso Usa. Ora la crisi strutturale della potenza americana sta costringendo i leader cinesi ad assumersi responsabilità globali, esercizio per il quale non si sentono ancora pronti. Anche perché consapevoli delle persistenti fragilità interne del loro paese.
 In questo contesto, l’Europa è particolarmente esposta ai venti del cambiamento e appare incapace di governarli. Anche perché ha fallito nell’idea di costituirsi in soggetto politico unitario. Vent’anni dopo il crollo dell’impero sovietico e dopo vari allargamenti, lo spazio dell’Unione Europea è frastagliato, incoerente, spesso rissoso.
 La vicenda dell’euro ci ricorda che, alle strette, gli interessi particolari prevalgono sull’europeismo. E’ molto probabile che nei prossimi anni vedremo emergere, a destra come a sinistra, formazioni politiche sempre più esplicitamente anti-europee, in nome della protezione di interessi non solo nazionali, ma corporativi o locali.
 Di più: i leader europei stentano ad accettare il fatto che l’America non è più concentrata sul Vecchio Continente, ma sulle sfide asiatiche. Obama guarda a Pechino, a Delhi, eventualmente a Brasilia. Dell’Europa si interessa poco, almeno finché la crisi dell’euro non dovesse precipitare. Perché in tal caso essa rischierebbe di trascinare con sé ciò che resta dell’ordine monetario ed economico globale, tuttora fondato sul dollaro.
 Estremo paradosso: il nostro Paese, mai così screditato e ininfluente nel gioco delle potenze regionali e mondiali, attira negli ultimi tempi l’attenzione degli analisti e dei decisori americani, tedeschi, francesi o cinesi. Giacché se l’Italia di Berlusconi finisse davvero a gambe all’aria, dichiarando fallimento, sarebbe la fine dell’euro. E la fine dell’euro non potrebbe che riflettersi sul resto del mondo.
 Allo stesso tempo, chi potrebbe salvarci, soccorrendoci magari con gli eurobond evocati da Tremonti, non sembra disposto a farlo. Basta chiederlo ai partner tedeschi, per tacere di olandesi, finlandesi e altri europei del Nord.
 Non sappiamo quali evoluzioni la crisi avviata dopo l’11 settembre – ma in realtà già dieci anni prima, con il crollo del Muro di Berlino, cui il mondo non era pronto – potrà disegnare nel prossimo futuro. Di sicuro vivremo tempi interessanti. Ma non c’è bisogno di inclinare al pessimismo per immaginare che saranno comunque tempi difficili, forse i più difficili della nostra storia recente.

* Analisi apparsa sul Trentino e sui quotidiani del gruppo Espresso

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