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mercoledì, 22 giugno 2011
22 Giugno 2011
l’incontro con Slow Food
lunedì, 27 giugno 2011
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venerdì, 24 giugno 2011

Che cosa accomuna la rivoluzione dei gelsomini e l’89 europeo? Di questo discutono a Rovereto, nella prestigiosa sala della Fondazione Cassa di Risparmio, il giornalista libico Farid Adly, lo scrittore e giornalista romeno Mihai Mircea Butcovan e il politologo serbo nonché direttore del Belgrade Centre for European Integration Jovan Teokarevic.

Davide Sighele, giornalista di Osservatorio Balcani Caucaso, rivolge questa domanda consapevole delle grandi differenze che segnano queste stagioni, ma anche del fatto che quando nei mesi della sollevazione egiziana si vedevano gli agenti dei servizi di sicurezza sparare dalla cima dei condomini sulla folla che manifestava, il pensiero andava direttamente a quella rivoluzione della cui natura ancora oggi si discute in Romania.

E’ questa del resto la domanda dello straordinario film "Ad est di Bucarest": c’è stata la rivoluzione nella tua città? La gente è scesa in piazza prima o dopo la caduta di Ceausescu? Ma la gente in Tunisia, in Egitto, nello Yemen e in Siria è scesa in strada sul serio a rischio della propria vita: ragazzi quindicenni, come il nipote di Farid in Libia. Jovan lo incalza, ricordando che nel 1990 portò sua figlia di tre anni sulle spalle alle manifestazioni contro Milosevic: "quando senti che in gioco è la tua dignità e il futuro dei tuoi figli…".

L’89 diede il là a grandi speranze, subito interrotte dalla guerra ritornata lo strumento normale per regolare interessi internazionali ed egemonie. Il Golfo prima e la dissoluzione della vecchia Jugoslavia poi, trasformarono velocemente la speranza in incubo. Ma la storia non si fermò, il mondo cambiò davvero. Ed anche oggi è così: cambia il Mediterraneo, il mondo arabo esce dalla sua infelicità, dallo splendore perduto che per decenni ha fermato le lancette dell’orologio in quel pezzo di mondo. E rappresenta davvero qualcosa di nuovo: non solo perché protagonisti – come spesso in questi casi – sono i giovani ma anche perché ciò avviene all’insegna della nonviolenza e senza alcuno dei simboli del Novecento. Quel che da questa parte del Mediterraneo facciamo ancora fatica a fare.

La sala è piena ed attenta, accompagna con applausi i passaggi più significativi dei relatori. Fuori un gruppo di ragazzi distribuisce un volantino in cui si descrivono le attività di Finmeccanica a Rovereto e la ricerca sui sistemi di guerra in Manifattura Domani. Ed affermano: "Dalla collaborazione con la guerra alla sofferenza inflitta alle scimmie, non c’è che dire: Rovereto città della pace!"

Prendo nota e decido di approfondire. Perché sul serio la pace può diventare rotorica, a fronte di processi molto complessi dei quali talvolta non si è nemmeno consapevoli. Al di là delle associazioni un po’ tirate che vengono proposte, che la ricerca sia oggi piegata agli interessi dell’apparato militar industriale non è un invenzione di questi ragazzi. Essere "città della pace" non è un impegno semplice: richiede attenzione, impegno, studio, coerenza nelle scelte. Mettere al lavoro intelligenze e sensibilità.

Come avviene per l’attività di Osservatorio Balcani Caucaso che Rovereto ospita senza essere fino in fondo consapevole della portata del suo lavoro per costruire informazione, conoscenza, elaborazione dei conflitti. Ovvero politiche per la pace.

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