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Quelle parole, però, sono state sufficientemente chiare, indipendentemente dal computo della sentenza. L’ex leader dei serbo bosniaci è stato condannato per genocidio, persecuzione, sterminio, omicidio, deportazione, terrore, in un contesto che ha ricostruito gli anni ’92-’95 ricordando le decine di migliaia di persone rinchiuse nei campi di concentramento, uccise, allontanate dalle proprie case. È caduta, però, l’accusa di genocidio nelle altre zone della Bosnia Erzegovina, oltre a Srebrenica, in particolare nelle sette municipalità di Ključ, Sanski Most, Prijedor, Vlasenica, Foča, Zvornik e Bratunac. Secondo la versione del Tribunale, dunque, il genocidio è stato commesso solo nel luglio ’95, a Srebrenica, ma la leadership serbo bosniaca non aveva un piano genocidario nei confronti della popolazione bosniaco musulmana fin dall’inizio del conflitto. È questa la parte della sentenza che più è stata criticata dai sopravvissuti e dalle associazioni delle vittime. Munira Subašić, presidente delle Madri delle enclave di Srebrenica e Žepa, ha dichiarato che non era importante la lunghezza della condanna, ma la ricostruzione precisa di quanto avvenuto, auspicando proprio che la Procura riesca in appello a presentare le prove dell’esistenza di quel piano genocidario sin dal ’92.

Karadžić, che aveva chiesto per sé il proscioglimento, ha ascoltato impassibile la sentenza. Negli oltre cinque anni di processo, durante i quali hanno testimoniato quasi 600 persone, la sua versione dei fatti e quella del procuratore, Alan Tieger, sono rimaste inconciliabili. Impossibile ricostruire la parabola personale e politica di un uomo che, prima di vestire i panni del più acceso nazionalista, era considerato una persona mite dai propri concittadini, e che nel periodo jugoslavo era salito agli onori delle cronache solo per qualche piccola truffa. Molti hanno cercato di spiegare la trasformazione con la sindrome del ragazzo di campagna che, arrivato in città, sviluppa un risentimento patologico nei confronti della “gradska raja” di Sarajevo, dell’élite culturale urbana che non lo aveva sufficientemente apprezzato. Un altro ragazzo proveniente da uno sperduto villaggio del Montenegro, a pochi chilometri da quello in cui era nato Karadžić nello stesso anno, il 1945, Marko Ve&scaron

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