Economia e pace. Un altro declino
9 Giugno 2009Il muro, le mura
9 Giugno 2009Il primo dato è – a questo proposito – l’affluenza al voto, dalla quale si può desumere il livello di interesse per le istituzioni europee. Non parlo solo del dato più eclatante dei paesi di nuovo ingresso nell’Unione come la Polonia (24,5% degli eventi diritto), Romania, (27,4), Slovacchia (19,6), Lituania (20,9), Repubblica Ceca (28,2), Ungheria (36,3), Bulgaria (37,5) e così via, ma di paesi "fondatori" come la Francia (40,5), la Germania (43,3), i Paesi Bassi (36,5), o per altro verso del Regno Unito (36,3) e della Spagna (44,3). Dati che ci dicono come l’Europa non scaldi affatto il cuore degli europei e come il suo Parlamento rappresenti meno della metà dei suoi cittadini.
A questo primo dato si aggiunga il fatto che fra coloro che si sono recati alle urne si affermano i partiti conservatori (tradizionalmente tiepidi verso il progetto europeista) e la destra (apertamente euroscettica e xenofoba). In altre parole vince chi non vuole l’Europa, il che rende esplicito lo stallo nel processo di costruzione dell’Europa politica. Com’era già accaduto con i referendum che avevano bocciato il progetto di Trattato costituzionale, prevale un’idea di Europa che si ripiega su una semplice alleanza di stati, senza alcun passaggio di sovranità. A venire avanti è quell’Europa degli stati evocata a Trento dal premier ceco Vaclav Klaus (che miopia quell’aquila di San Venceslao consegnatali al Teatro Sociale nel 2006…), che liquida il progetto dell’Europa quale soggetto insieme "post-nazionale" e fondato (come venne del resto immaginato nel Manifesto di Ventotene) sulle regioni europee.
Di quella intuizione "glocale" non sembra esserci più traccia. Tant’è vero che l’allargamento è avvenuto da un certo punto in avanti in maniera inerziale, producendo avversità e chiusure, com’è del resto testimoniato dall’espressione del voto dei "nuovi arrivati", fino a fermarsi del tutto, lasciando nel cuore dell’Unione un buco nero (i Balcani occidentali), tema pressoché scomparso dall’agenda dei 27, ed una zona grigia (la Turchia) la cui adesione viene agitata come una sciagura che snaturerebbe l’identità cristiano giudaica dell’Europa.
Come già nella campagna elettorale, ora anche nei primi commenti del voto la sconfitta dell’Europa è appena accennata, quasi sfumata nello sfondo di un referendum pro o contro Berlusconi. E così nemmeno ci si accorge che è proprio nella vittoria della Lega che va colto il tratto caratterizzante dell’esito elettorale. La vittoria di un partito che, al contrario, dell’Europa ha parlato, eccome. Prima con l’opposizione all’ingresso dell’Unione alla Turchia, segnando una netta divisione anche all’interno della stessa coalizione di governo, evocando paure ancestrali, il pericolo islamico (con il richiamo al potere evocativo della "Battaglia di Lepanto"), poi prendendosela con le elementari norme di civiltà sociale e giuridica che promanano da Bruxelles e che provano ad impedire l’estendersi di quelle forme di deregolazione che in questi anni abbiamo conosciuto nei paradisi della delocalizzazione delle imprese del nord est italiano.
In questo senso, la Lega è il partito che più di tutti in Italia ha saputo interpretare "lo spirito del tempo", quel che si agita in un corpo sociale atomizzato ed in preda allo spaesamento. E’ il voto al Carroccio che ci parla di una sconfitta culturale prima ancora che politica. Che fa leva sull’onda lunga di quello "scontro di civiltà" che il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America cerca ora in tutti i modi di ricucire ma che in Europa ancora prende le viscere ed infiamma gli animi.
E’ dunque il disegno di un’Europa politica forte, autorevole e federata regionalmente ad uscire sconfitta da queste elezioni. Quel disegno che – venendo a noi – avremmo visto e ancora vogliamo vedere fortemente intrecciato al tema di una nuova fase della nostra autonomia, quella del "Terzo Statuto" nel quale la tradizione di autogoverno si coniuga con la nascita dell’Euroregione alpina. Ma di questo disegno s’è parlato poco e fatica ad emergere nel trascinarsi stanco di una Regione ormai fuori del tempo, incapace di mettere da parte le diatribe sulle competenze e di far valere la forza evocatrice della transnazionalità.
Credo sia superficiale, nel cercare di capire dove siano finiti i voti dell’UpT, pensare ad un voto banalmente "in libertà". Una parte di questo voto va a destra perché il vento che spira in tutta l’Europa passa anche da qui, senza trovare quegli anticorpi culturali capaci di collocare il disegno europeista in un orizzonte federalista e territoriale. C’è in questo di che riflettere anche in Trentino, su un voto che si colloca non solo "secondo convenienza", ma seguendo un istinto politico culturale che lo posiziona altrove rispetto al segno di un’alleanza provinciale che più volte il presidente Dellai ha definito come "strategica".
Così, se una parte (piccola) di questo voto "in libertà" segue le indicazioni del partito e un’altra altrettanto piccola (lo si vede ad esempio nei Comuni della Valle dell’Adige) segue un’affinità che viene da un "corpo a corpo" consolidato con il centro sinistra ingrossando il voto al PD nelle aree urbane, c’è una parte consistente di elettorato UpT che va ad ingrossare la destra. Che probabilmente è destinato a rientrare, ma che sul piano culturale appare esposto e condizionante. Il che ci dice di un’alleanza che governa il Trentino ancora molto fragile, di cui ci si dovrebbe "prendere cura" proprio sul piano culturale piuttosto che assecondarla nella sua rappresentazione di interessi particolari.
Una rappresentazione che tende a svilire il laboratorio trentino, che invece potrebbe ancora avere qualcosa da dire, specie di fronte ad uno scenario europeo dove ancora impera la divisione fra progresso e conservazione. E che riecheggia nel confronto sulla collocazione del PD rispetto alle grandi famiglie politiche europee.
Credo che effettivamente il voto europeo, nella sua apparente "innocenza", ci abbia inviato messaggi tutt’altro che banali.