
sabato, 16 aprile 2011
16 Aprile 2011
martedì, 19 aprile 2011
19 Aprile 2011Il 18 aprile nella storia della Repubblica italiana è una data importante, malgrado sia oggi caduta nell’oblio. Nell’anno 1948, il 18 aprile, ci furono le prime elezioni politiche dopo il voto per la Costituente e la DC ottenne la maggioranza assoluta dei seggi al Parlamento. Il Fronte Popolare, rappresentato dall’effige di Giuseppe Garibaldi, rimase inchiodato ad una percentuale di poco superiore al 30%, condannando per tutti gli anni cinquanta la sinistra all’opposizione.
Lo scontro fra i due schieramenti non andava certo per il sottile. Basterebbe guardare i manifesti della campagna elettorale di allora per rendersi conto di come la contesa fosse esasperata nei contenuti come nei toni della campagna elettorale. Anche nelle scelte, non sempre le regole venivano rispettate: sono gli anni del più pesante collateralismo della guerra fredda, delle basi militari dell’Alleanza Atlantica sparse per tutto il paese e la cui realizzazione non passava certo dal Parlamento, della "Gladio" come di altre forme di organizzazione paramilitare fuorilegge, dell’ostracismo e dell’emarginazione di chi la pensava diversamente, del lavoro che non c’era e del paternalismo che lo governava, della discriminazione verso le donne e dell’oscurantismo, dell’emigrazione interna e dell’edificazione selvaggia nelle città, dei veleni nell’industria che ancora oggi fanno sentire la loro pesante eredità.
A differenza di oggi la politica suscitava ancora grandi passioni, i partiti erano espressione reale delle pulsioni del paese, c’era forse maggior moralità. Ma non possiamo certo dire che tutto avvenisse in punta di fioretto e lo stato di diritto rappresentava una conquista ancora lontana.
Eppure nel degrado della politica di questo tempo, nel venir meno di alcuni elementi essenziali dell’equilibrio dei poteri, nell’imbarbarirsi della società dell’immagine, si scorgono i segni di un male profondo che attraversa questo paese e che non può non preoccuparci. Che non è riconducibile solo alla leadership berlusconiana. Certo, l’ingombrante presenza di Silvio Berlusconi rende tutto più impresentabile, sul piano morale come su quello culturale. Ma sbaglieremmo se pensassimo che sgombrando il campo dall’anomalia del caimano, tutto potesse rientrare nel corretto svolgersi di una normale dialettica politica.
Dovremmo aver capito da tempo che la Lega non è un fenomeno padano. Il partito dei veri finlandesi ha vinto le elezioni in un paese dove non manca certo lo spazio vitale. Quanto avviene nella democraticissima Olanda o nella Svizzera dei referendum è sostanzialmente analogo. Un fenomeno fondato sulla percezione, netta e razionale, che il modello di sviluppo che ne ha costituito in passato la ricchezza, quel patto keynesiano che si basava sull’esclusione di 2/3 dell’umanità dal tavolo delle trattative, sia una storia morta e sepolta dall’irrompere sulla scena mondiale di milioni di esseri umani che rivendicano gli stessi diritti. E che per mantenere quel che si ha occorra sparare sui migranti prima che arrivino.
E’ quel che ci racconta Ugo Morelli, nell’incontro che abbiamo l’indomani sul disegno di legge per l’apprendimento permanente, quando in un corso di formazione rivolto a giovani imprenditori e funzionari di banca uno dei presenti, dai modi distinti e dalla parlata fluente, interviene per dire che di fronte al fenomeno migratorio l’unica soluzione è la militarizzazione dei mari e dei confini.
Appunto. Nelle esternazioni del premier come nelle espressioni populiste dei leader della Lega c’è la guerra. C’è il venir meno di un tessuto comune di civiltà sociale e giuridica, ma anche la fine di quell’ipocrisia diffusa che portava l’occidente a farsi paladino dei diritti universali malgrado fossero inesigibili, quasi che l’impoverimento di una parte del pianeta fosse il prodotto dell’arretratezza culturale piuttosto che di uno sfruttamento che da secoli riduce paesi ricchi in condizione di privazione. Non sono solo io a dirlo, lo afferma con grande lucidità e forza il cardinale di Milano Dionigi Tettamanzi nella sua omelia domenicale.
Il paradosso è che quando prevale la deriva del "si salvi chi può…" nei penultimi scatta l’aggressività verso gli ultimi. Risulta ormai abituale (e le cronache ne danno, ovviamente, piena rappresentazione) trovare migranti che si dicono preoccupati per l’arrivo dei profughi o commercianti cinesi di Roma lamentarsi per l’assenza di sicurezza. Tutti contro tutti.
Scompaiono i luoghi del dialogo e della mediazione politica, tutto diviene lotta per il proprio spazio vitale. Viene percepito e si tirano fuori gli artigli.
Con tutto questo non centrano nulla il federalismo, l’autogoverno, le competenze autonomistiche. Lo si può cogliere nell’incontro che abbiamo con i membri trentini della Commissione dei Dodici, l’organismo deputato a concordare con lo stato l’attuazione delle competenze dell’autonomia. Mai come in questi ultimi tempi lo scontro fra la nostra autonomia e il governo di Roma ha avuto tanti contenziosi aperti, leggi finanziarie impugnate, prerogative messe in discussione. E, lo dice bene il presidente Dellai, abbiamo strappato nuove competenze solo perché il governo di Roma aveva bisogno di far cassa. Ai leghisti nostrani dell’università e degli ammortizzatori sociali non interessava granché: per loro il loro federalismo fa rima con egoismo, piuttosto che con responsabilità. E’ l’anomalia trentina che vorrebbero omologare.
Arriva in Trentino l’onda umana, l’esodo biblico è rappresentato da una decina di tunisini che vengono accolti dalla Protezione Civile a Marco e dopo un paio di giorni negli alloggi di Atas. Quando è la rappresentazione del reale il vero problema…