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di Michele Nardelli
(15 maggio 2020) Ancora non sappiamo quale sarà l’impatto della pandemia dovuta al Coronavirus sull’impronta ecologica del pianeta Terra. E’ questa la ragione per cui il Global Footprint Network non ha ancora calcolato quale sarà l’Earth overshoot day 2020, ovvero il giorno in cui il pianeta avrà consumato quello che gli ecosistemi terrestri sono in grado di produrre in un anno.
E’ anche possibile che per la prima volta da quando il Global Footprint Network calcola il giorno del superamento (1970), il 2020 sia rilevato con molto ritardo (o non lo sia affatto), per quanto l’anno in corso rappresenti una particolare anomalia. Ma non per questo meno interessante se pensiamo, come ha ricordato Silvano Falocco nel confronto promosso da POP dal titolo “Una nuova generazione di idee per il mondo nuovo“ (lo potete trovare sulla mia pagina facebook o su quella di POP), che nei primi quattro mesi del 2020 si è calcolato che la riduzione dell’emissione di CO2 nell’atmosfera è stata del 7,2%, un po’ meno di quello che la Commissione sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite ha indicato come obiettivo annuale (7,6%) per riuscire a contenere in 1,5 gradi il surriscaldamento terrestre entro il 2030.
Per dire che se non intendiamo procedere verso un incremento maggiore del surriscaldamento, dovremmo riconsiderare in maniera radicale l’attuale modello di sviluppo, i nostri stili di vita e di consumo. Il che non fa certo parte dell’attuale orizzonte dei governi ma nemmeno delle pratiche e delle aspirazioni consumistiche di una buona parte degli abitanti del pianeta.
A prescindere dall’impatto del Coronavirus, nei giorni scorsi è stato riproposto il dato dell’overshoot day dei singoli paesi rimodulando sull’anno bisestile il dato del 2019, comunque significativo: il giorno del superamento per l’Italia è il 14 maggio.
Quello dell’intero pianeta nel 2019 è stato il 29 luglio. Il che significa che quel che consumeremo da quel giorno verrà sottratto, posto che intendiamo consegnare il pianeta così come lo abbiamo trovato, alle generazioni a venire. E questo senza considerare la profonda iniquità della distribuzione delle risorse fra inclusione ed esclusione.
Quello del Global Footprint Network è una sorta di unità di misura dell’impronta ecologica che serve per comprendere il grado di sostenibilità del pianeta, dei paesi e dei territori.
I dati che emergono da questa fotografia scattata di anno in anno sono impressionanti. Se alla fine degli anni ’50 del secolo scorso il pianeta consumava il 50% delle risorse riproducibili è a partire dal 1971 che il pianeta va in rosso. E da quel momento quasi ogni anno è andata peggio: nel 1980 il superamento è avvenuto il 4 novembre, dieci anni dopo (1990) il 13 ottobre. La progressione è continuata a grandi balzi, tanto che l“Earth Overshoot Day nel 2000 è stato il 23 settembre e nel 2010 il 9 agosto. Fino a raggiungere l’impronta più pesante nel 2019. Con la rilevazione del 2019 la popolazione terrestre per mantenere quel livello di consumi avrebbe bisogno di 1,7 pianeti.
Se questo è il dato globale, è interessante dare un’occhiata a quel che accede sul piano della sostenibilità ecologica dei singoli paesi. Lo schema allegato indica bene la situazione in cui si trovano i paesi sul piano delle loro biocapacità e su quello dell’impronta ecologica. Il dato che emerge è che se una parte del mondo consuma meno di quel che il suo territorio può dare (i paesi che non appaiono nel grafico fanno parte di questa categoria), ci sono paesi come gli Stati Uniti d’America che consumano almeno 3 volte tanto (in questo caso il giorno del superamento avviene il 15 marzo).
C’è di che riflettere e di che cambiare. Se non lo faremo le conseguenze sono già oggi sotto i nostri occhi.