Non andrà tutto bene. A meno che …
15 Aprile 2020L’overshoot day nel tempo del Coronavirus
15 Maggio 2020“La maledizione di vivere tempi interessanti‘ (102)
di Michele Nardelli
(24 aprile 2020) Che cosa significa allentare il confinamento (lockdown) mentre ancora la pandemia miete ogni giorno solo in Italia centinaia di vittime? Ho dei cattivi presagi, peraltro confermati dallo studio pubblicato nei giorni scorsi sulla rivista “Nature Medicine‘ dall“Università di Trento in collaborazione con l“Università e il Policlinico San Matteo di Pavia, l“Università di Udine, il Politecnico di Milano e l“Istituto di elettronica e di ingegneria dell“informazione e delle telecomunicazioni (Ieiit) del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr). “Pensare di allentarlo ora sarebbe impossibile senza mettere in conto delle conseguenze disastrose‘ afferma all’Ansa Giulia Giordano, prima autrice dello studio e ricercatrice del dipartimento di ingegneria industriale all“Università di Trento.
Perché dunque tanta fretta di allentare le misure di restrizione che hanno sin qui – malgrado il ritardo iniziale – avuto l’effetto di contenere gli effetti del Covid 19, rischiando di rendere vano quel che sin qui è stato fatto?
Sin dal primo diffondersi del virus, nell’incapacità di comprenderne le caratteristiche e nella difficoltà di trovare un antidoto, le risposte messe in campo sul piano globale sono state sostanzialmente due:
– quella del distanziamento, fermando (quasi) tutte le attività che non fossero indispensabili, impedendo la circolazione delle persone sia sul piano internazionale che su quello nazionale e regionale; scelta assunta a fatica e spesso in maniera contraddittoria (si pensi al blocco dei voli da e per la Cina, senza fermare per quanto riguarda l’Italia le triangolazioni da altri paesi);
– quella dell’immunità di gregge ovvero l’idea che l’unico modo di fermare il virus fosse nel suo diffondersi e nella maturazione di un’immunità diffusa, mettendo in conto una quantità significativa di infezioni e di morti.
La prima opzione è stata quella adottata sin dal primo momento in Cina, in Italia e in altri paesi europei, anche se in forme più o meno rigorose. E più o meno responsabili, se pensiamo che quasi un terzo dei decessi nel nostro paese sono avvenuti nelle RSA perché la terapia intensiva non era disponibile per tutti i contagiati (grazie al taglio dei finanziamenti e alle politiche di privatizzazione), decidendo chi dovesse sopravvivere e trasferendo “gli scarti“ nelle strutture per anziani.
La seconda è quella che sin dal primo momento avevano sostenuto i leader sovranisti, da Trump a Johnson, da Putin a Bolsonaro (ma anche i loro epigoni nostrani). Alcuni dei quali – di fronte all’esito catastrofico sul piano delle conseguenze in termini di contagi e di morti e di fronte all’insorgere delle loro opinioni pubbliche – successivamente si sono ricreduti (le conseguenze di questo atteggiamento le possiamo vedere negli Usa e nel Regno Unito). Altri invece (Russia e Brasile) nascondendo semplicemente il problema e ora allestendo fosse comuni che si vorrebbero segretare.
Poi è iniziata l’offensiva del sistema, l’onda di un modello di sviluppo che si autodifende: “l’economia non si può fermare“, si dice, “oltre al coronavirus moriremo pure di fame“ si insiste… anche il lavoro nero – che coinvolge almeno 3,7 milioni di lavoratori (il 4,5% del PIL) – viene legittimato come parte di una “normalità“ desiderabile e così via. Il crollo del PIL, quello del prezzo del petrolio, seguito a ruota dai mercati finanziari (la cui bolla può scoppiare da un momento all’altro) sembra spaventare molto di più del Covid 19, perché questa è l’impalcatura su cui si regge questo modello di sviluppo che di fronte all’impoverimento di quote crescenti di popolazione preferisce gettare i prodotti agroalimentari invenduti.
L’opzione “lockdown“ richiede infatti almeno tre condizioni fondamentali: il rispetto delle disposizioni di confinamento, il dirottamento di ingenti risorse pubbliche verso forme di welfare e di sostegno pubblico al lavoro e alle imprese che rispettano le regole, infine, tempi lunghi di confinamento nei quali ridurre gli effetti in attesa dell’antivirus. Tutte cose che il neoliberismo non ama: perché magari la quarantena aiuta le persone ad adottare stili di vita più sobri, perché al welfare è proprio allergico, perché la ricerca o è funzionale al profitto (e all’industria bellica) oppure la si affida al buon cuore (Telethon e affini).
A questo si deve aggiungere il fatto che gli individui, ormai ridotti a consumatori seriali (per lo più di cazzate), non ne possono più della quarantena. Lo vediamo in questi giorni, dove già si allenta il distanziamento proiettando il proprio desiderio di normalità nel convincimento che ormai il peggio sia passato. L’allentamento, diciamo così, ha una sua forte base sociale. Richiamo irresistibile per una politica piegata alla ricerca di consenso.
Spero di sbagliarmi ma ho la sensazione che l’opzione immunità di gregge cominci a riprendere quota di fatto, senza dichiararlo (e forse senza nemmeno volerlo): “dovremo ritornare alla normalità convivendo con il virus“ è l’argomento usato in questi giorni. Il cinismo di un modello di sviluppo che non può fermarsi. Il virus corona e il virus normalità (che ne è all’origine e di cui ho scritto nella puntata precedente http://michelenardelli.it/commenti.php?id=4445 di questa rubrica) si riconoscono.
Delle cause profonde di quel che accade (non solo il Covid 19, o forse pensiamo che gli effetti del cambiamento climatico come l’invasione delle locuste, la desertificazione crescente, lo scioglimento dei ghiacciai, i tornadi… siano svaniti?), delle richieste dei giovani di Friday for future, delle raccomandazioni degli scienziati dell’ONU, delle esortazioni dell’enciclica Laudato sì proprio non se ne parla, proprio non vogliamo parlarne, insieme vittime e carnefici di questo “progresso scorsoio“1.
Usciamone con calma, facendocene carico ciascuno per quello che può (compresa la patrimoniale), estendendo i contratti di solidarietà ridistribuendo oltre che la ricchezza anche il lavoro (lavorare meno, lavorare tutti dicevamo già quarant’anni fa), riconsiderando i nostri consumi e stili di vita, tagliando le spese militari e le grandi opere inutili e costose. Con un progetto politico europeo profondamente rinnovato, scevro da sovranismi. Serve un’altra rotta, fare meglio con meno.
PS. Lo Stato del Missouri (USA) intenta una causa miliardaria contro la Cina per aver taciuto sull’epidemia. Ci si accanisce sull’origine geografica del coronavirus, e questo a mio avviso è un vero e proprio meccanismo di distrazione di massa. Già a gennaio il focolaio era attivo negli Stati Uniti e non solo. Lo dico perché parlando con diversi amici, in Trentino come in varie parti del mondo, sento continue testimonianze circa la diffusione di “una strana e cattiva polmonite“ nel corso del 2019, ben prima dunque del febbraio 2020. Non fake news ma racconti diretti di persone strappate alla morte. Penso che il virus di cui parliamo abbia radici ben più profonde del mercato di Wuhan e che il tema del limite rappresenti il nodo cruciale se davvero vogliamo uscirne insieme.
4 Comments
Caro Michele,
finalmente! Per una volta, finalmente, posso dire di non essere d’accordo con te. E’ già capitato certo di avere visioni differenti, pur scrivendo due libri insieme, ma questa volta le nostre conclusioni sembrano quasi opposte.
In realtà non è proprio così, condividiamo ad esempio la premessa che questa crisi non sia frutto di un virus maligno piovuto dal nulla a rovinare un presente dorato. Questa crisi al contrario è frutto proprio di quel presente malato, che il virus ha avuto il ruolo di smascherare. E condividiamo varie altre considerazioni che fai nel tuo intervento: sulla perversione produttivista di chi chiede di tornare subito al “business as usual”, sull’egoismo sociale di chi non tollera limitazioni personali perché non conosce l’idea di bene comune, sull’ipertrofia emergenzialista che si concentra sulle – certo necessarie – risposte immediate e cancella l’analisi delle cause complesse.
Ma nella ricetta del “lockdown” prolungato che richiami io vedo il pericolo di danni rilevanti, che già questi due mesi rischiano di aver prodotto. Anzitutto il rinforzo, quasi l’apoteosi, di quella cultura securitaria per cui l’altro mi è comunque nemico, che assieme abbiamo cercato di segnalare nel nostro libro. Mascherina, distanziamento, barriere in plexiglas rischiano di diventare la nuova versione di telecamere e inferriate, cioè l’oggettivazione del rancore sociale. Intendiamoci, servono e vanno usati. Mi preoccupano però la loro esaltazione, i droni in spiaggia, i sindaci sceriffo, le paginate di selfie mascherati sui giornali, i video con le denunce pubbliche agli untori che passeggiano o prendono il sole. La caccia alle streghe, insomma.
Questa crisi dovrebbe aver svelato l’idiozia delle politiche securitarie imboccate dalle nostre società – pensiamo se tutti i soldi spesi negli ultimi vent’anni per armi, telecamere e videosicurezza fossero andati nella sanità, territoriale prima ancora che ospedaliera… Invece paradossalmente sembra rinforzare le spinte alla separazione, alla diffidenza, al non nel mio giardino. Sento frasi come: “ora vietiamo ai bambini il giardino del condominio”, oppure “questi barboni non possono girare liberi, il Comune deve chiuderli da qualche parte”, o ancora “le panchine all’aperto non andavano sigillate (e già così sono un’immagine molto brutta, riflessione mia), ma proprio rimosse”.
Ecco, un “lockdown” prolungato per me è un pericolo per il rinforzo a questa cultura. Viceversa una ripresa controllata e graduale avrebbe il senso di non aggravare le derive anti-sociali, che pure resteranno a lungo come portato di questa crisi. Del resto par di capire che col virus si dovrà convivere, almeno nel medio periodo, più che ipotizzarne l’eliminazione. Perciò è importante attrezzare la sanità di base, sul territorio, e quella ospedaliera. Ed è giusto prendere le misure di precauzione necessarie, ma è giusto anche l’equilibrio nel prenderle.
La vita umana è sacra, nelle diverse accezioni che può avere il termine, e non si discute. Però la vita umana è fatta da corporeità e socialità, altrimenti saremmo solo ammassi di cellule. La difesa della salute biologica è fondamentale, ma anche la salute sociale, le relazioni, le interazioni lo sono. Vedo un po’ di ipocrisia – non è il tuo caso, lo so – quando i giornali piangono i tanti morti nelle rsa, ma poco riflettono sull’abnorme numero di anziani che ci finisce a vivere. Quasi diventassero importanti solo adesso, perché muoiono…
Insomma, magari stiamo solo guardando la stessa medaglia da due facce diverse. Io però vorrei uscire presto dalle logiche di emergenza, dai blindati dell’esercito in piazza e dagli sguardi spaventati tra chi si incrocia per strada. Non con incoscienza o superficialità. Ma perché si è attrezzata una risposta sanitaria all’altezza, si sono adeguati i comportamenti individuali e collettivi ad uno stile di vita più lento e sobrio, e insieme si è scelto di promuovere la cultura della fiducia su quella del sospetto. Per debellare il virus del covid-19, insomma, non vorrei ne facessimo crescere un altro, quello della paura sociale e del rancore.
Ciao
Mauro
Caro Mauro, malgrado tu cerchi di tirarmi dentro una diatriba fra contrari e favorevoli del “confinamento”, sono sostanzialmente d’accordo con te. Semmai temo di più il darwinismo del diritto naturale insito nell’idea di immunità di gregge, ovvero della logica del si salvi il più forte. Ma questo non significa che io sia fra i fautori del confinamento, considerato che entrambe le “soluzioni” sono figlie della stessa insostenibilità.
Sai bene quanto la cultura dell’emergenza mi sia estranea. La vivo oggi con il rammarico di una persona che si sente inascoltata, che da anni pone il tema del “limite” come un cambio di paradigma indispensabile e che non ha mai smesso di mettere in guardia dalle conseguenze che si stavano addensando sulle nostre esistenze. Tanto da dedicarvi oltre ai due lavori che abbiamo scritto insieme (“Darsi il tempo” e “Sicurezza”) e che dopo anni mantengono intatto il loro valore, anche il nuovo lavoro che ho scritto con Diego Cason. Che cos’è “il monito della ninfea” se non l’avvertimento che la rincorsa agli avvenimenti è la logica emergenziale che ci impedisce di cogliere la connessione di tutto quel che ci sta portando verso il baratro?
Spero che questi mesi (e quelli che ci attendono) di distanziamento possano far riflettere sull’urgenza di cambiare, a cominciare dai propri comportamenti. Ma temo che il ritorno alla normalità significhi proseguire sulla strada che ci ha portati a questa situazione.
Un abbraccio. E al prossimo libro.
Potrei limitare il mio commento a questa sintesi: in questo periodo ci siamo entrati ignoranti, non ne usciremo sapienti.
Questa però è una lettura di breve periodo; la stessa che ti fa dire di essere inascoltato.
In una prospettiva più alta e più lunga, invece, non siamo messi peggio che nel passato, anzi; non solo siamo più attrezzati, ma ci sono molte più persone di un tempo che hanno pensieri e comportamenti più virtuosi.
Dove, invece, siamo alle caverne sono proprio le élite intellettuali e, soprattutto, i gruppi dirigenti politici e amministrativi.
Come conciliare una più corposa cittadinanza attiva e la sua rappresentanza autoreferenziale? Credo che gli shock a cui siamo stati sottoposti nel nuovo millennio abbiano accumulato molta esperienza, di constatazione degli errori impliciti ai nostri stili di vita. Nel 1986, ricorderai, eravamo veramente in pochi contro le centrali nucleari, ma Chernobyl instillò il dubbio che portò al referendum abrogativo. Cosa è mancato? In quell’occasione, come in tante altre successive, è mancata la capacità di incunearsi nella faglia che si apriva nelle certezze della maggioranza, dell’economia, della crescita infinita. Noi non siamo stati capaci.
Vogliamo provarci, questa volta, ad essere capaci?
Partiamo dall’ascolto, da una migliore capacità di interpretazione del comune sentire che non è solo di aspirazione al ritorno alla normalità, ma, altrettanto convinta, che non può essere quella di prima.
Stammi bene
Vittorio
P.S.: sono andato fuori tema?
Caro Vittorio, spero che tu abbia ragione e che nel lungo periodo se ne possa uscire cambiando stili di vita e modello di sviluppo. Per questo ciascuno cerca di fare qualcosa di utile. Quello su cui non sono d’accordo è questa divisione netta che tu fai fra cittadinanza attiva ed elites politiche. I gruppi dirigenti sono sempre espressione della società, anzi capita spesso che l’agire politico li renda più inclini alla ricerca di soluzioni che tengano conto anche di posizioni diverse. Dunque la questione è prima di tutto di orientamento culturale della società, perché è qui che le attuali classi dirigenti hanno vinto, se consideriamo che gli esclusi la pensano come gli inclusi. La povertà non è santa, l’appartenenza ad una classe sociale non è in sé una condizione di antagonismo verso il potere. E nemmeno la coscienza di classe lo era. “Ciò da cui occorre liberarsi – scrive Raniero La Valle – è il dominio delle cose sull’uomo che le produce, dell’oggetto sul soggetto; ciò che è da rovesciare è l’aggressiva signoria del prodotto che … rende il capitalista e l’operaio, pur nel loro conflitto, figure o maschere di una medesima alienazione”. E’ vero che sempre più persone aprono gli occhi sull’insostenibilità di un modello che ci sta portando nel baratro, ma senza il cambiamento dei paradigmi che ci hanno portati sin qui non faremo altro che riprodurre lo stesso esito. E allora incunearsi nelle falle come dici tu (e condivido) significa immaginare scenari diversi, realizzare progetti che abbiano come caratteristica questo cambio di pensiero. Serve un nuovo racconto capace di far tesoro delle tragedie e delle illusioni, ivi compresa la natura umana. L’elaborazione dei conflitti, non il rincorrere delle emergenze. A presto.