Il disegno di Trump contro l’Europa
20 Giugno 2019A proposito di sovranità e sovranismi
10 Agosto 2019“La maledizione di vivere tempi interessanti‘ (94)
di Michele Nardelli
Ho lasciato trascorrere qualche giorno per condensare in un commento una serie di pensieri che, a partire dalla vicenda della Sea Watch, investono la questione migratoria. Ma in un tempo fatto di avvenimenti che si consumano in tempo reale, rimpiazzati di giorno in giorno da nuove emergenze (o presunte tali), sembra difficile trovare lo spazio (e l’attenzione) per una riflessione che guardi alla radice di quel che accade.
Si preferisce soffiare sul fuoco di un contesto ormai imbarbarito anziché affrontare i nodi di fondo che la questione migratoria pone, un iceberg che chiama in causa l’insostenibilità di uno sviluppo che sul piano globale produce naufraghi di ogni tipo.
Per questo ho trovato importanti le parole di Andrea Segre (Cambiare rotta. Senza eroi e capitani1), una riflessione che chiama in causa la miopia (e il cinismo) di molti per non dire tutti (anche dei buoni) e che ci pone di fronte ad un diritto primario dell’uomo, quello di muoversi, oggi negato con il reato di clandestinità. C’era un tempo dove la xenia, la sacralità dell’ospite, era un dovere.
Che si debba operare per salvare vite umane, non c’è ombra di dubbio. Farlo, almeno nell’immediato, vuol dire sostenere l’attività delle ONG che battono il Mediterraneo nel prevenire i naufragi dei barconi nonostante minacce e divieti, diventando noi stessi correi nell’infrangere le leggi che violano i diritti umani.
Guardando un po’ oltre l’emergenza, significa adottare una politica europea per svuotare i campi profughi in Libia, in Turchia, lungo la rotta balcanica o nei paesi del Mediterraneo come il Libano che si sono fatti carico dell’esodo di centinaia di migliaia di persone, attraverso l’assunzione di responsabilità di ciascun paese europeo. La strada per questo – lo vado dicendo da almeno tre anni – non può che essere quella dei corridoi umanitari, attraverso un ponte aereo con questi paesi.
Ancora un po’ più in là in questa road map politica sulla questione migrazioni, l’impegno dovrebbe orientarsi nel dare soluzione diplomatica alle controversie che generano instabilità e guerre. Un terreno sul quale misuriamo la crisi delle istituzioni internazionali come le Nazioni Unite e la loro impotenza di fronte a scenari nei quali prevalgono vecchie e nuove alleanze strategiche che coinvolgono le superpotenze. Mentre si è sfarinato quel tessuto di diplomazia parallela della società civile che pure in passato aveva dato origine ad interessanti e concrete sperimentazioni.
Sempre sul piano sovranazionale sarebbero urgenti azioni di contrasto relative ai cambiamenti climatici e agli effetti di desertificazione sui territori (talvolta avviate ma poi arenatesi come nel caso del progetto Great Green Wall2), investimenti sul futuro globale che dovremmo considerare come forme di risarcimento per il fatto che molti dei paesi dai quali partono i profughi sono stati per secoli colonizzati e depredati in nome del progresso e dello sviluppo.
Promuovendo infine reti di cooperazione internazionale con i paesi d’origine dei profughi, da attuare attraverso un coordinamento di azioni a livello europeo e regionale, curandone la sostenibilità. Non l’ipocrisia dell’aiutiamoli a casa loro, ma un’altra idea di cooperazione internazionale, che parta dalla considerazione che i paesi impoveriti sarebbero ricchi di loro (senza dimenticare che la loro impronta ecologica è ben più sostenibile di quella dei paesi detti “donatori“ che vorrebbero insegnare loro il come si fa), che – paradossalmente – più i paesi sono ricchi di risorse più sono a rischio di impoverimento, che superi quindi la logica degli aiuti allo sviluppo; verso la costruzione di relazioni, capaci di investire sull’auto-consapevolezza e sulla formazione delle classi dirigenti, su processi partecipativi e sullo stato di diritto3.
Una road map che presuppone un vero e proprio cambio di paradigma e che dovrebbe investire tutti, compreso il mondo della ONG nel quale è urgente un profondo ripensamento a cominciare dalla propria capacità di leggere e di abitare il presente.
Non è qui in discussione la solidarietà verso le ONG che non rinunciano alla propria autonomia progettuale e politica, a prescindere dal fatto che i governi di riferimento siano “ostili“ o “amici“ (imporre codici comportamentali alle ONG è una vecchia storia che abbiamo già conosciuto ai tempi della Missione Arcobaleno4 e che ci siamo visti riproporre due anni fa dallo stesso Minniti).
Se oggi è grave la criminalizzazione della solidarietà da parte del governo Salvini-Di Maio (peraltro sulle orme dei loro predecessori), se è altrettanto grave che in sede locale la Provincia Autonoma di Trento tolga di mezzo la percentuale dello 0,25% del PIL alla solidarietà internazionale (ricordo a questo proposito che l’obiettivo posto dalle Nazioni Unite per il 2020 era lo 0,7%), è oltremodo grave che il mondo della solidarietà internazionale si sia trasformato in circo umanitario e in un progettificio che ha smesso da tempo di porsi come soggetto di cambiamento, rinunciando ad un ruolo politico che ne ha cresciuto l’autoreferenzialità.
Del resto se il confronto si esaurisce sull’ultimo miglio si tende a perdere di vista che la tragedia del Mediterraneo è solo l’iceberg di una questione che investe il mondo intero: la nostra insostenibilità, il consumare quasi il doppio delle risorse disponibili intaccando un patrimonio che non è nelle nostre disponibilità5; l’iniqua distribuzione che divide l’umanità fra inclusi ed esclusi, che produce morte per mancato accesso all’acqua potabile, per fame e cattiva alimentazione; il ricorso alla guerra nella loro versione tradizionale come in quella moderna, ma anche la produzione bellica e le spese militari; la perdita delle biodiversità, tanto che la vita è sempre più nelle mani di grandi monopoli privati. E’ la terza guerra mondiale di cui parla papa Francesco, nella quale ciascuno di noi è reclutato nel momento in cui affermiamo l’irrinunciabilità al nostro stile di vita. Tragedia nella tragedia, gli esclusi hanno come proprio orizzonte l’inclusione, non certo il cambiamento di questo stato di cose.
Si potrebbe dire che la fine di una storia ha prodotto un vuoto e una rinuncia, tanto che in buona parte della sinistra si considera quello fondato sul mercato come il migliore dei mondi possibili. Manca, in altre parole, un racconto diverso. Parte di questa rinuncia va sotto l’espressione cultura della legalità.
Nel dibattito sulla vicenda Sea Watch si è infatti evidenziata una questione serissima che si potrebbe descrivere così: quando la barbarie è legge.
Perché la cultura della legalità non è affatto un valore. Non lo era quando si legittimò in nome dello jus communicationis la conquista delle Americhe e lo sterminio delle popolazioni native. Non lo era al tempo delle segregazioni e della schiavitù, che consideravano i neri o gli indigeni come non umani. Non lo era quando in nome della legge si mandarono su per il camino milioni di persone per la semplice ragione di essere diversi, si promulgarono nei Parlamenti nazionali di mezza Europa le leggi razziali o si perseguitarono e si uccisero gli oppositori politici. Un tragico elenco di crimini perpetrati nel nome di una religione, di un’ideologia, di una patria e di leggi emanate per conto del popolo sovrano.
Non era un valore nemmeno negli anni dei grandi cambiamenti sociali nella seconda metà del secolo scorso, quando una straordinaria stagione di lotte portò a radicali riforme sociali e civili. Andammo spesso contro la legge e le leggi cambiarono.
Dovremmo considerare che ogni cambiamento che si possa chiamare tale si è trovato a mettere in discussione l’ordine precedente e le sue leggi. Il diritto che regola la vita di ogni comunità è sempre l’esito di un contesto sociale e culturale. Dunque modificabile a seconda degli orientamenti che vi si esprimono.
Proprio riflettendo sull’immane tragedia della seconda guerra mondiale e sull’Olocausto, nel 1948 si è cercato di correre ai ripari stabilendo che esistono valori e diritti fondamentali inalienabili. E’ nata così la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, Carta che sta alla base del diritto internazionale. Un diritto, a ben guardare, esigibile per una ben esigua parte della popolazione di questo pianeta.
A questa ipocrisia si deve ascrivere un sistema mondo dove continuano a prevalere gli interessi degli Stati nazionali più forti che nei fatti condizionano lo stesso sistema delle Nazioni Unite. Un umanesimo ipocrita e povero di mondo che non ha certo messo fine alla proliferazione di armi di ogni tipo, comprese quelle di distruzione di massa, al neocolonialismo e alla spogliazione delle risorse verso i paesi impoveriti, alle devastazioni ambientali in nome di modelli di sviluppo che hanno portato ad una crisi ecologica che non ha precedenti nella storia dell’umanità.
Alla considerazione che quello che abbiamo non è il migliore dei mondi possibile è necessario aggiungere che le leggi dovrebbero corrispondere a cambiamenti di contesto nei quali si aprono scenari inediti.
E che oggi la condizione sia inedita appare un dato di fatto. Lo è sul piano dei cambiamenti climatici, tanto che le stesse agenzie internazionali (che peraltro sono emanazione dei governi nazionali) ci dicono che il limite è stato superato, che siamo ben oltre la soglia della sostenibilità, che abbiamo poco tempo se vogliamo almeno la riduzione del danno. Lo è sulla progressiva inabitabilità di intere regioni del pianeta, che provoca il fenomeno delle migrazioni climatiche. Lo è sul piano dell’utilizzo delle risorse del pianeta, non solo rispetto alla questione antica della loro redistribuzione (è sufficiente scorrere i dati sulla ricchezza globale) ma nel rapporto con le generazioni a venire, considerato che nel 2019 consumeremo complessivamente 1,75 volte ciò che gli ecosistemi terrestri sono in grado di produrre e che questa dinamica si aggrava di anno in anno sempre più. Lo è sul piano della crescita demografica, considerato che nel 2050 la popolazione mondiale avrà superato la soglia dei 9 miliardi di esseri umani, che vivranno in grandi megalopoli insostenibili sotto ogni profilo. Si potrebbe proseguire a lungo.
Come possiamo pensare che le regole di convivenza immaginate nel contesto precedente siano in grado di regolare il diritto alla vita in una realtà del tutto nuova e che ci pone domande inedite?
Potremmo dunque dire che i processi migratori sono l’iceberg che apre di fronte a noi due prospettive radicalmente diverse che oggi si confrontano e segnano il discrimine fra sovranismo e nuovo umanesimo. Quella che di fronte all’insostenibilità globale sceglie il diritto di natura hobbesiano (quello del più forte, tanto per capirci). L’esito è lo scarto di qualche miliardo di esseri umani. E’ la strada del nuovo fascismo, quella del prima noi. E quella che si propone un orizzonte diverso, ovvero di rientrare tutti insieme nella sostenibilità, che si propone di riconsiderare il modello di sviluppo dominante e di riqualificare i nostri consumi all’insegna del fare meglio con meno. E’ questo l’orizzonte di un nuovo umanesimo in grado di mettere in discussione i paradigmi della modernità, lo stato-nazione, la guerra, il progresso.
Forse allora, più della cultura della legalità, occorre una cultura del cambiamento, esigente e radicale. Il tema migranti che oggi viene usato come una clava a favore del sovranismo potrebbe al contrario aiutarci ad imparare a vivere nell’interdipendenza.
2Ne abbiamo parlato in questo sito nell’articolo che potete trovare qui: http://michelenardelli.it/commenti.php?id=4255
3Mauro Cereghini – Michele Nardelli, Darsi il tempo. EMI, 2008
4La Missione Arcobaleno venne realizzata dal Governo italiano guidato da Massimo D’Alema a ridosso della guerra in Kosovo nel 1999 che vide la partecipazione diretta dell’Italia. A guidarla l’allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Marco Minniti.