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Un’occasione perduta per parlare di Europa

“La maledizione di vivere tempi interessanti‘ (92)

di Michele Nardelli

Le elezioni per il Parlamento Europeo sono state un’occasione persa per parlare di Europa. Chiedersene la ragione non farebbe male. L’Europa poteva rappresentare in sé un mutamento di paradigma, un’opportunità per cambiare il nostro sguardo spostandolo dall’orizzonte degli stati nazionali ad una visione insieme sovranazionale, macroregionale e mediterranea. Inchiodati invece agli schemi novecenteschi e ridotta la politica alla rincorsa emergenziale di nodi strutturali, il confronto elettorale è diventato un inguardabile referendum intorno e dentro al governo nazionale.

Non una parola sul cambio di prospettiva alla luce dell’insostenibilità di questo modello di sviluppo; malgrado la nascita di un movimento globale (Friday for Future) che s’interroga sul destino del pianeta, solo parole di circostanza (di adulazione o di biasimo) e spesso contraddittorie sulla questione dei cambiamenti climatici; niente sulla guerra mondiale in corso fra inclusione ed esclusione ma neanche sulla guerra in armi che si combatte ai margini orientali dell’Europa; come niente sulla guerra dei dazi commerciali che dagli USA alla Cina sta coinvolgendo il mondo intero; poco o nulla sul tema della regolazione del lavoro e dei diritti sociali ed ambientali per fermare i processi di delocalizzazione delle imprese; come nulla sull’allargamento dell’Unione ai paesi europei che non ne fanno parte; niente sul Mediterraneo e sul vicino Oriente che non sia la militarizzazione delle relazioni imposta dal blocco Israele, USA e Arabia Saudita che cerca la guerra con l’Iran aprendo così uno scenario oltremodo inquietante.

Poteva anche essere una grande occasione per parlare di nuove geografie. Come non vedere che il contesto globale è caratterizzato da poteri che sfuggono alle forme tradizionali di controllo sociale ed istituzionale? E che dunque servono nuove bussole per orientarsi fra processi di finanziarizzazione e di criminalizzazione sempre più invasivi? Come non fare i conti con meccanismi di formazione degli orientamenti culturali e comportamentali condizionati da algoritmi verso i quali le forme del diritto internazionale appaiono totalmente inadeguate? Come non rendersi conto che i corridoi internazionali si relazionano con dinamiche di potere riconducibili alla post-politica, rendendo così obsoleti gli attuali livelli istituzionali? Atlanti, mappe e bussole che non sono state nemmeno sfiorate dal confronto elettorale.

Più in generale, in questa transizione infinita fra una storia conclusa ed un’altra che fatica a delinearsi, nemmeno si è posta la necessità di fare i conti con quel che il Novecento ci ha consegnato. Al contrario il tema della memoria viene usato come richiamo retorico ad identità nazionali in sottrazione verso il prossimo vissuto come insidia e pericolo. Così anche il centenario della prima guerra mondiale è diventato lo scenario dell’insorgere di nuovi nazionalismi e sovranismi. Come imparare dalla storia… Nell’assenza di un cambio di paradigma, si arriva a dipingere l’Europa come teatro di pace a partire dal secondo dopoguerra nonostante il cruento conflitto durato dieci anni nel suo cuore balcanico. Senza nemmeno comprendere che si trattava di una prova generale per quel che sarebbe accaduto negli anni successivi, ovvero il ripristino dei confini, del filo spinato e dei campi di detenzione. E di quel prima noi, per niente estraneo al Deutschland über alles evidentemente per nulla elaborato.

E allora faccio davvero fatica a pensare al voto di una settimana fa come un nuovo inizio. Con un cittadino su due dell’Unione che non avverte la necessità di votare il proprio Parlamento, con quasi un italiano su due che diserta le urne e con l’altra metà che vota al 70% per partiti che sono euroscettici se non apertamente contrari all’Europa. Con il Regno Unito che ha già scelto di uscire dall’Unione e con paesi fondatori come Francia e Italia dove i primi partiti sono parte dell’estrema destra sovranista.

Se in questa fosca cornice si trova motivo di sollievo significa rifiutarsi di vedere la realtà. Quella di un’Europa segnata da una crisi politica profonda, incapace di una propria iniziativa e paralizzata dai veti nazionali. Cui fa riscontro nei paesi che ne sono parte il timore di parlarne per paura di perdere consenso, a testimonianza dell’opportunismo e dell’angustia di una politica chiusa nei confini nazionali. Quella di un paese socialmente imbarbarito e politicamente alla deriva, tanto che la destra vince due volte, nelle urne come nel dettare l’agenda politica. Quella di un centrosinistra che supera di poco il 28% dei voti, con un PD che si dice soddisfatto di essere il secondo partito in Italia pur avendo perso la metà dei voti di cinque anni fa malgrado l’assorbimento di una parte del popolarismo e di gran parte della diaspora democratica.

Che dire poi del voto in Trentino? Un voto che va ben oltre i numeri che pure non lasciano scampo se pensiamo che solo sei anni fa, alle elezioni politiche del 2013, il centro sinistra autonomista contava più del 50% dei voti (con il M5S già al 20 e passa per cento). E che ci parla di una crisi del tessuto sociale mai così profonda, investendo ogni segmento – dal movimento cooperativo ai soggetti sociali, dall’associazionismo al volontariato – che era all’origine di quell’anomalia politica, sociale e culturale che per tanti anni ha fatto diversa questa terra.

Ed è ancor più preoccupante che il Trentino dell’anomalia – quanto fastidio dava questo concetto a gran parte del PD! – sia svanito senza che questo abbia costituito terreno di riflessione alcuna né nei partiti, né nella comunità trentina. Come se si fosse trattato dell’incapacità di tenere insieme una coalizione (la rottura con il PATT) o di un difetto di comunicazione. Quando invece la ragione era (ed è) ascrivibile al fatto che i processi di trasformazione e di governo richiedevano partecipazione, consapevolezza e visione. Come non comprendere, ad esempio, che la liquidazione delle Comunità di valle è stata la premessa della disfatta?

E poi, una storia è finita anche qui. Categorie analitiche che non funzionano più, forme dell’agire politico di natura plebiscitaria e dunque incapaci di creare una diffusa classe dirigente, la rete del volontariato in preda alla banalità del bene, la fatica nel delineare un nuovo racconto capace insieme di fare i conti con la storia ma al tempo stesso con le grandi questioni del nostro tempo ed il loro drammatico manifestarsi. Siamo in guerra e non ce ne rendiamo conto, siamo insostenibili e facciamo finta di niente, la natura si ribella e ci convinciamo che il problema sia la crescita del pil.

Una settimana dopo, anche al Festival dell’Economia si fa finta di niente. E’ da tempo che non mi piace più, sempre a rincorrere piuttosto che a scrutare il tempo. Si insiste sul non più quando semmai dovremmo indagare il non ancora.

Come mi manca la poetica di Andrea Zanzotto.

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