Serve un nuovo racconto
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di Michele Nardelli
(6 gennaio 2019) Ho la sensazione che in molti a sinistra o nei mondi dell’impegno sociale, qui come altrove, pensino che se la destra vince questo sia l’esito di un errore da parte degli elettori, come si trattasse di fiducia mal riposta, oppure di una forma di protesta rispetto ad un contesto di crescente preoccupazione e di paura verso il futuro, oppure ancora di un difetto di comunicazione a fronte di grandi apparati mediatici che promuovono leader inguardabili che sanno interpretare gli umori del popolo.
In questa nota provo a dire che non è affatto così, che gli elettori sanno bene per chi votano, che questo indirizzo corrisponde pienamente al loro modo di vivere e di pensare. E che anche quando fossimo in presenza di una scarsa conoscenza degli intrecci politico finanziari di cui sono espressione le nuove destre importa ben poco, perché le ragioni di una scelta elettorale corrispondono alle idee e ai valori che vengono proposti e nei quali si crede.
Il popolo non si sbaglia nel voto, si vota quel partito o quel candidato perché lo si ritiene più vicino al proprio modo di vedere le cose, oppure per interesse personale, che poi è la stessa cosa. Anche il più classico dei voti di scambio esprime una visione ed un modello di società e di rapporto con le istituzioni e il potere. Questo non significa che il popolo abbia sempre ragione, anzi. Ma, molto semplicemente, che il voto è la fotografia di una società e di un paese. E delle sue derive.
Non mi riferisco solo a quanto è accaduto in Italia con le elezioni del 4 marzo o in Trentino il 21 ottobre dello scorso anno. Questo è il vento che tira nel mondo. Lo capiamo o no che hanno vinto loro e che un progetto sociale e politico diverso dall’arricchirsi è tutto da costruire? Che le alternative che si sono espresse ai Trump o alla May, ai Bolsonaro o a Salvini, nella migliore delle ipotesi, non vanno oltre la socialdemocrazia di tipo keynesiano che si reggeva sulla spogliazione di una parte del pianeta cui non veniva riconosciuta cittadinanza (“umanesimo povero di mondo‘ lo definisce Michel Serres1)? E che a votare per la destra neoliberista sono prevalentemente i soggetti sociali che costituivano un tempo la base sociale della sinistra?
Il fatto è che la sconfitta, prima di essere elettorale, è culturale, sociale e politica. Se ovunque si afferma il “prima noi“ vuol dire semplicemente questo: che nell’interdipendenza tutti si sentono in guerra e che – a fronte del carattere limitato delle risorse – la strada più semplice è il si salvi chi può, ovvero la chiusura a riccio in difesa del proprio status. L’ultimo rapporto del Censis sullo stato del paese ci parla di questo e della cattiveria sociale che ne viene.
Se questo è vero, allora non è sufficiente (in realtà vorrei dire fuorviante) far sentire la propria voce di dissenso. E’ necessario indagare le ragioni di una sconfitta profonda, mettere in discussione le categorie analitiche e i paradigmi (comprese le parole ed il loro significato), interrogarsi sui nuovi caratteri delle soggettività sociali, agire nei luoghi di frontiera sporcandosi le mani se occorre, ritessere la trama di un nuovo racconto senza il quale l’opposizione rischia di essere un vuoto rituale.
E pure ipocrita. Forse ci siamo dimenticati che a lanciare l’idea dell’“aiutiamoli a casa loro“ e del bloccare con la forza il flusso dei profughi verso l’Italia è stato il ministro Minniti (peraltro non nuovo a questo genere di operazioni2)? E che, prima ancora, le guerre che hanno devastato il vicino Oriente avevano un carattere bi-partisan, compreso l’ultimo tassello libico? E, ancora, che il blocco dell’adeguamento delle pensioni, ormai più che decennale, se lo erano inventato i governi di centrosinistra?
L’insostenibilità del presente – un mondo che consuma già il primo di agosto tutte le risorse che gli ecosistemi terrestri riescono a produrre in un anno – è l’esito di un’idea di crescita e di sviluppo rispetto alla quale nessuno si può chiamare fuori e che mette in discussione stili di vita che oggi vengono considerati normali e non negoziabili.
Questa è la ragione della terza guerra mondiale, quella che si svolge fra inclusione ed esclusione. Con il paradosso che gli esclusi la pensano come gli inclusi.
Per uscirne – continuo a ripeterlo – serve un cambio dei fondamentali. Ho invece la sensazione che sia scattato un richiamo ad una sorta di gioco delle parti per cui la responsabilità è sempre di altri. Lo stesso meccanismo che conoscemmo nell’opposizione a Berlusconi, che era sacrosanta – sia chiaro – ma che nascondeva il vuoto progettuale che ci portiamo ancora appresso sia in termini di analisi di un tempo che facciamo fatica a decifrare, sia nell’elaborazione di una diversa proposta sociale che non consideri il nostro come il migliore dei mondi possibile. Nel marzo del 2002 con Cofferati portammo al Circo Massimo a Roma quasi tre milioni di persone in difesa dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, mai si era vista una manifestazione tanto grande ma ci rendemmo conto ben presto che la sconfitta si era già consumata. Dodici anni dopo, ad abolirlo con lo Jobs act fu il centrosinistra.
Ora mi si chiede di scendere in piazza contro il governo giallo-verde in Italia o quello nero-verde in Trentino (e le ragioni di certo non mancano). La mia risposta è che in assenza di un diverso racconto altro non sia che un palliativo per dire “ci siamo“ rimuovendo l’incapacità di fare i conti con la propria sconfitta. Non biasimo certo le persone – ed in primo luogo i giovani – che intendono far sentire la propria voce di dissenso verso questo scempio. Ed è bene che ognuno, dal singolo cittadino al sindaco, cerchi la strada per farlo. Ma credo – lo affermo soprattutto per la mia generazione – che dovremmo avere ben altra assunzione di responsabilità, per evitare che nell’assenza di elaborazione la storia si ripeti all’infinito.
Inoltre sarebbe opportuno che accanto alle idee proviamo a riconsiderare le forme dell’agire, la capacità di tessere relazioni con chi, nel deserto della politica, cerca e talvolta trova ambiti originali attraverso cui esprimere una diversa visione se non del mondo almeno del proprio stare al mondo. Guardiamoci attorno con curiosità.
1Michel Serres, Il mancino zoppo. Dal metodo non nasce niente. Bollati Boringhieri, 2016
2Ne ho parlato già un anno fa in http://www.michelenardelli.it/commenti.php?id=4070