Il fascismo non è morto
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di Michele Nardelli
In queste settimane si è parlato molto della vicenda dell’Ilva di Taranto, il più grande impianto siderurgico europeo, e dello scontro in atto fra il Governo italiano e la Regione Puglia in relazione al rispetto delle prescrizioni relative al disinquinamento dell’area come condizione per il rilancio produttivo da parte della cordata che si è proposta l’acquisto dell’Ilva.
Non è mia intenzione in questa nota parlare del cosiddetto “acciaio italiano“, che peraltro non esiste se non per la dislocazione in questa penisola di un numero considerevole di impianti che portano l’Italia ad essere fra i dieci produttori di acciaio al mondo e riconducibili a gruppi multinazionali che li hanno rilevati con il minimo di investimenti e che hanno ben poco a cuore la salvaguardia dell’ambiente o la salute dei lavoratori o degli abitanti nelle aree circostanti.
Né intendo entrare nel merito del piano industriale presentato dalla cordata Arcelor Mittal – Marcegaglia giudicato in un primo momento irricevibile persino dal ministro dell’industria Calenda per l’intenzione manifesta di ridurre drasticamente il numero di occupati, azzerare le condizioni salariali, nonché l’inquadramento dei lavoratori e la loro anzianità.
Né infine voglio qui porre la domanda – a mio avviso cruciale – su quale senso possa avere proseguire sulla strada già conosciuta di riempire le coste italiane di impianti impattanti ed inquinanti che nulla hanno a che vedere con le vocazioni e le straordinarie unicità sulle quali potrebbe basare un nuovo modello di sviluppo non solo sostenibile ma auspicabile.
Intendo dedicare questa piccola nota alla multinazionale al centro della trattativa per l’acquisto dell’Ilva, l’Arcelor Mittal. Il colosso industriale dell’acciaio anglo-indiano nato nel 2006 dalla fusione di due delle più grandi aziende del settore a livello mondiale (Arcelor e Mittal Steel Company) dislocata in 60 paesi e che produce annualmente 114 milioni di tonnellate di acciaio per un fatturato di oltre 50 miliardi di euro. Fra questi paesi anche la Bosnia Erzegovina, dove nel dopoguerra vennero rilevate l’enorme acciaieria di Zenica e il sistema minerario di Omarska (Prijedor).
Oltre alla sua colossale produzione industriale Arcelor Mittal è salita in questi anni alle cronache per due vicende: una che ha avuto grande risonanza (quella della torre diventata il simbolo dei giochi olimpici di Londra del 2012) e un’altra forse meno nota ma non per questo meno significativa: il rifiuto di concedere l’autorizzazione per realizzare un luogo della memoria nella fabbrica di Omarska, nei pressi di Prijedor nella parte nordoccidentale della Bosnia Erzegovina, dove nel 1992 venne realizzato il più grande dei campi di concentramento sorto in Europa dopo la fine della seconda guerra mondiale.
Omarska, insieme a Trnopolje e Keraterm, era uno dei campi realizzati per la pulizia etnica delle popolazioni non serbe della regione di Prijedor dove, dal marzo all’agosto del 1992, vennero internate almeno 3.000 persone (mille delle quali assassinate o scomparse). Solo nel vicino sito di Tomasice in una fossa comune sono stati trovati i cadaveri di 456 persone, per non parlare della miniera di Lijubja (articolazione del sistema di Omarska, sempre nella municipalità di Prijedor) nella quale secondo le testimonianze della gente del posto venivano visti entrare autobus carichi di persone per uscirne vuoti. E si tratta solo di una piccola parte delle persone assassinate nella zona, tant’è vero che dei criminali inquisiti dal TPI de L’Aja circa la metà lo sono stati per crimini commessi in quell’area della cosiddetta “Republika Srpska“.
Ma questa elementare verità ancora viene negata dalle autorità della RS e della Municipalità (come del resto avvenne e ancora avviene per il genocidio di Srebrenica) così che alla richiesta di realizzare un piccolo memoriale nei pressi della “Casa Bianca“ all’ingresso della fabbrica di Omarska (nel 1992 luogo degli interrogatori e dei pestaggi) anche la proprietà ha risposto con un diniego. In altre parole l’Arcelor Mittal ha creduto opportuno negare l’autorizzazione al Comitato dei famigliari delle vittime per un luogo del ricordo in ossequio ai nazionalisti (e ai criminali) che ancora non vogliono riconoscere la tragedia che si consumò in quel sito industriale e nella vicina Trnopolje (per tutta la vicenda si può consultare il Dossier realizzato per OBC da Andrea Rossini https://www.balcanicaucaso.org/Dossier/Dossier/Omarska-15-anni-dopo-39205).
Da quel Dossier sono passati dieci anni e ben poco è cambiato. Quel che temeva Ed Vulliamy (il giornalista che per primo denunciò l’esistenza del campo) ovvero “che Omarska come prova tangibile di quel che è stato, sparisca; che le camere nelle quali le donne sono state violentate, vengano risistemate; che la mensa dove gli uomini aspettavano in fila per un piatto di zuppa insipida, offra ai lavoratori pasti in fretta e furia; che il cortile in cemento dove molti uomini furono massacrati, diventi un parcheggio per scintillanti Škode; che l’hangar dove gli internati se ne stavano rannicchiati gli uni contro gli altri, torni ad essere nuovamente un deposito; che la Casa bianca e rossa, dove gli uomini sono stati fatti a pezzi e torturati fino alla morte, vengano demoliti o riutilizzati come magazzini per gli attrezzi‘ è diventato realtà. Anzi, siamo già oltre.
Anche questo è la multinazionale Arcelor Mittal, il cui amministratore delegato Lakshimi Mittal è per la cronaca il più ricco cittadino britannico. Memoria? Falsa coscienza? Rimozione? La logica dello sviluppo va ben oltre queste cose per perdigiorno.