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Quando la dialettica politica è fra liberal e destra estrema…

“La maledizione di vivere tempi interessanti‘ (62)

di Michele Nardelli

(16 marzo 2017) Elezioni parlamentari nei Paesi Bassi, si è detto il primo dei test sull’Europa cui seguiranno le elezioni in Francia e in Germania. Il giorno dopo tutti sembrano tirare un sospiro di sollievo.

Al PVV, partito islamofobo e anti-europeo di estrema destra di Geert Wilders, non è riuscito il sorpasso e così il partito di centrodestra del premier uscente Mark Rutte, pur perdendo voti e seggi, potrà dar vita ad un governo di continuità, probabilmente in coalizione con altri partiti di centrodestra. Crollano i socialdemocratici che passano da 38 a 9 seggi, dato attenuato dal successo dei Groenlinks (Verdi di sinistra) che raggiungono 14 seggi contro i 4 precedenti. Il presidente della Commissione Europea Jean Claude Junker parla di “un voto per l’Europa”. Tutto bene, dunque?

Se dovesse essere questo il nostro modo di leggere il vento che spira in Europa, vedrei un futuro a tinte fosche. E spiego il perché.

Se in un paese tradizionalmente aperto e democratico come l’Olanda un partito di estrema destra come quello di Geert Wilders aumenta il proprio seguito rappresentando in consensi il secondo partito a fronte di un centrodestra che vince le elezioni, come non preoccuparsi?

Come non vedere che tutta la campagna elettorale in quel paese è stata condizionata non certo positivamente dalle posizioni xenofobe e razziste di questo personaggio inquietante? Come non leggere la crescita di una deriva “sovranista“ e nazionalista in Europa?

Certo, il peggio è sempre in agguato. Ma come non interrogarsi sulle ragioni e sulle responsabilità di questa deriva? O forse pensiamo che la dialettica politica qui e nel mondo si debba svolgere fra liberal ed estrema destra?

In realtà sembra essere proprio così. Uno scenario già visto negli Stati Uniti d’America, con l’esito che sappiamo (e che i primi cento giorni di Trump ci hanno confermato, in peggio naturalmente). Così probabilmente sarà in Francia, dove l’unica incertezza è di sapere con chi se la vedrà la fascista Le Pen (accreditata di un quarto abbondante dei voti) fra il candidato della destra repubblicana Fillon e quello liberal Macron.

Lungi da me mettere sullo stesso piano cose fra loro diverse. Ma se andiamo a vedere la geografia politica dei paesi dell’Unione Europea il segno è chiaro e i governi del centrosinistra rappresentano, semmai, l’eccezione. Per non parlare dei paesi europei che non ne fanno parte, dove i nazionalisti sono un po’ ovunque al governo e questo a prescindere dall’appartenenza alle famiglie politiche novecentesche che descrive sempre meno la loro natura politico-culturale.

Allora possiamo ben comprendere perché il progetto politico europeo sia in crisi. La realtà ci racconta che non c’è oggi nessun paese, a prescindere dalla sua colorazione politica, disposto a cedere quote sempre maggiori di sovranità all’Europa, né tanto meno verso l’autogoverno dei territori, come il disegno federalista di Ventotene aveva immaginato. E ciò vale anche per i paesi, fra cui l’Italia, che oggi pensano ad un’Europa a due velocità.

Nel “Manifesto di Ventotene“ si immaginava “la definitiva abolizione della divisione dell’Europa in stati nazionali sovrani‘, nonché “la fine delle diseguaglianze e dei privilegi sociali‘. Francamente non mi pare che Germania, Francia, Spagna e Italia intendano andare in questa direzione.

Anche in questo – oltre che alla difficoltà di ridisegnare un progetto e prima ancora un pensiero politico che si ponga nell’orizzonte di un nuovo umanesimo non antropocentrico – dovremmo considerare la profondità della sconfitta. Per contenere e ridurre il danno non serve perseguire il male minore. Occorre, non mi stanco di dirlo, ripartire dai fondamentali.

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