La guerra mondiale fra inclusione ed esclusione
31 Gennaio 2017Quando la dialettica politica è fra liberal e destra estrema…
16 Marzo 2017La maledizione di vivere tempi interessanti (61)
di Michele Nardelli
(23 febbraio 2017) Nell’osservare il triste spettacolo che si consuma in questi giorni nel Partito Democratico avverto soprattutto distanza. Certo, c’è anche l’amarezza per il definitivo consumarsi di un progetto nel quale avevo creduto, l’idea che potesse nascere un soggetto politico che, nel portare a sintesi le migliori culture politiche del campo democratico, fosse in grado di esprimere un pensiero capace di rappresentare un’alternativa originale al neoliberismo dominante.
“Abitare i conflitti“ mi dicevo e dunque perché non provarci anche in un partito che nasceva consapevole dell’inadeguatezza tanto dei partiti precedenti, quanto delle culture politiche novecentesche dalle quali proveniva? In realtà questa consapevolezza si dimostrerà ben presto marginale a fronte di una progressiva omologazione, più attenta al marketing politico che alla necessità di leggere i processi sociali, al cercare consenso che alla crescita di uno spirito critico, al difendere condizioni di privilegio piuttosto che interrogarsi sull’insostenibilità del nostro modello di sviluppo. Come se la tragicità della condizione umana fosse scomparsa con la fine di una storia che vedeva contrapposte le grandi ideologie novecentesche. E come se l’emergere di un nuovo conflitto fra inclusione ed esclusione avesse solo a che fare con la nostra insicurezza.
Una distanza cresciuta nel tempo che mi ha portato tre anni fa a decidere che quella non era più la mia casa. E che avverto oggi ancora più profonda per l’impossibilità di riconoscersi in una dialettica che – al netto dei personalismi – si svolge nello spazio che va dal “Partito della Nazione“ (lo stesso orizzonte che in Francia si va delineando con la candidatura di Emmanuel Macron) alla socialdemocrazia di stampo keynesiano (ora identificata a livello europeo con la candidatura di Martin Schulz). Uno spazio angusto, di cui il PD è prigioniero.
Perché entrambi questi orizzonti – ancorati come sono ai paradigmi novecenteschi – mi appaiono in tutta la loro profonda inadeguatezza, tanto nel descrivere come nell’affrontare questi tempi nuovi. Sono anni che vado dicendo, più o meno inascoltato, che è necessario cambiare “i fondamentali“ della nostra progettualità politica, ma quel che avviene anche nella turbolenza politica di queste ore sembra aver più a che fare con gli involucri e, semmai, con le simbologie che non con i contenuti.
Si è continuamente scomodata in questi giorni la pesante degenerazione dei rapporti personali nel gruppo dirigente del PD, come se in passato l’etica politica non si fosse accompagnata alle picconate. O come se questa fosse una prerogativa del solo livello nazionale… basterebbe frequentarli un po’ da vicino questi luoghi per capire che non è affatto così, come del resto è testimoniato dall’estinzione dei circoli e dall’emorragia degli iscritti. Il fatto è che più debole è la politica (la progettualità politica), maggiore diviene la personalizzazione e più forti le dinamiche di potere. Ma ridurre il confronto interno al PD allo scontro fra Renzi e Bersani non fa che banalizzare la realtà di una politica a corto di pensiero.
La crisi del PD (ma a guardar bene la crisi della politica e dell’insieme dei corpi intermedi) è crisi di sguardo, rivela l’obsolescenza delle chiavi di lettura nella comprensione dei nuovi scenari, il rimanere avvinghiati a vecchi paradigmi quali la crescita a fronte dell’insostenibilità di un modello di sviluppo che produce esclusione, il rilancio dei consumi a fronte della coscienza di limite, il rivendicare più lavoro quando si dovrebbe redistribuire e qualificare quello esistente, la centralità dello stato-nazione a fronte di un’interdipendenza che scardina le sovranità, il continuare a far parte di alleanze militari (e proseguire sulla strada degli armamenti) in nome della pace, l’Europa delle sovranità nazionali a fronte di un progetto come quello pensato a Ventotene che richiede cessione di sovranità verso l’alto (l’Europa politica) e il basso (l’autogoverno territoriale).
Ed è così anche qui, fra queste nostre montagne dove pure una sperimentazione politica originale era riuscita a rendere possibile per quasi vent’anni l’anomalia dell’unica regione dell’arco alpino non finita nelle mani della destra. Di questa anomalia è stata parte anche la sperimentazione politica nella sinistra trentina, che andava proprio nella direzione di quel soggetto politico autonomo che oggi, con vent’anni di ritardo, si richiede a gran voce dopo averla in tutti i modi avversata. Nell’incapacità di saperla riconoscere prima ancora che interpretare e sostenere. Nel voler omologare – in nome del maggioritario – il quadro politico trentino a quello nazionale. Nel mettere in difficoltà dall’interno la coalizione di governo invocando una leadership diversa da quella di Dellai fino a far vincere le primarie al Patt. Ed infine, da parte degli stessi protagonisti dell’anomalia, nell’incapacità di cogliere i limiti e la contraddittorietà nell’azione di governo, come se l’autonomia ci mettesse al riparo dai flussi lunghi della globalizzazione, come se l’esercizio di un livello importante di autogoverno non richiedesse una capacità di interpretazione dinamica (il terzo statuto e l’Europa), come se la conservazione e lo sviluppo di questo patrimonio non richiedesse una nuova classe dirigente diffusa.
Pronti a far rapidamente marcia indietro (tanto sono palesi i limiti di cultura autonomistica presenti nella sinistra trentina) qualora fosse più conveniente vivere di rendita rispetto al quadro nazionale, come del resto è stato nel momento di euforia verso il renzismo.
Credo che la “lunga marcia“ invocata da Vincenzo Calì richieda non solo il dotarsi di buoni scarponi ma di capacità di osservazione e, a partire da ciò, di quello sguardo lungo senza il quale la nostra agenda politica altro non farà che rincorrere il tempo. Il passo da montagna richiede inoltre prudenza e saggezza. E, magari, saper dove andare.
3 Comments
“La marcia indietro” che paventavi, caro Michele, è stata fatta con la rapidità del fulmine, addirittura prima ancora che la generica indicazione approvata dal coordinamento (attivare in tempi brevi la procedura per ottenere l’autonomia statutaria del PDT) diventasse operativa. La risposta a muso duro del segretario provinciale Gilmozzi all’intervento di Bruno Dorigatti ci conferma che la volontà da parte dei dirigenti del PD è proprio quella di “vivere di rendita sul nazionale”. Mancando il PDT di tattica e di strategia, a che santo ci volgiamo? La parola d’ordine della sinistra per i giovani d’oggi non ha subito mutazioni di sorta rispetto al passato. Quale fu la spinta ideale della generazione che si affacciò alla politica negli anni sessanta del secolo scorso? Possiamo trovare la risposta in questi versi di Pier Paolo Pasolini, tratti dal poemetto “Le ceneri di Gramsci”: “Come i poveri povero, mi attacco come loro a umilianti speranze, come loro per vivere mi batto ogni giorno…”. Oggi che gli economisti ci spiegano che la forbice fra ricchi e poveri si è ulteriormente allargata, anche sul territorio trentino, la risposta deve essere corale e di popolo. Ben venga allora il richiamo all’art.1 della Costituzione, e che si formi anche da noi una sinistra consapevole e responsabile. Niente settarismi e micropartiti, bando ai personalismi, chiamare a raccolta le molte intelligenze cresciute in questi pur difficili anni. Fatti tu promotore della stesura di un manifesto programmatico: ti viene riconosciuta onestà intellettuale e serietà d’impegno, insieme ad una esperienza maturata in una lunga militanza politica (altro che rottamazione!). Sarà un lungo cammino, e noi certamente non ne vedremo l’esito finale; le tappe intermedie si percorreranno su di un terreno ricco di insidie, di populismi e radicalismi senza approdo, di ritorno sotto false spoglie (liste civiche?) di ideologie di destra antidemocratica. Non per questo dobbiamo rinunciare, o arrenderci al “continuismo” di un centrosinistra autonomista che, per usare una più alta espressione usata da Berlinguer, “ha esaurito la sua spinta propulsiva”.
Caro Vincenzo, la doppia capriola dei “democratici trentini” sul partito federato la dice lunga sul loro profilo politico. Di fronte ad una scissione che avrebbe potuto riguardare un terzo del corpo sociale del PD, tutti di corsa a prendere le distanze dal nazionale, anche quelli che avevano sempre avversato l’ipotesi federativa. Poi, di fronte al ridimensionarsi della frattura, ecco la corsa al rientrare nei ranghi, allineandosi al capo che bolla l’uscita di cinquanta parlamentari come il complotto del perfido D’Alema. Parlare di disonestà intellettuale è dir poco, qui come a Roma. Che nel corso di un decennio gli iscritti al PD siano più che dimezzati, sembra non importare, ma quella è una scissione silenziosa e, in fondo, per un partito liquido contano i voti. E, a guardar bene, sempre meno anche quelli. La responsabilità è dell’attuale leadership? Ovviamente anche, compresi quelli che ora hanno deciso di andarsene fondando un movimento che si è chiamato “Democratici e progressisti”. E allora mi chiedo: costoro si sono mai interrogati sulle categorie otto-novecentesche come “progresso”? Su che cosa chiamiamo a raccolta, caro Vincenzo? Di manifesti in questi anni ne ho scritti molti, ma credo che oggi si debba lavorare – come scrivo in questa riflessione – sui “fondamentali”, sulle categorie concettuali attorno alle quali ricostruire un nuovo pensiero politico e, semmai, a partire da questo nuove soggettività. Con l’avvicinarsi delle scadenze elettorali assistiamo ad una movimentazione politica a 360 gradi e anche a sinistra non si scherza. Ma sul piano delle idee siamo sempre lì, come se il problema della crisi della sinistra fosse di comunicazione. Non è così ed è per questo che occorre un paziente lavoro di ricostruzione di senso, perché la solitudine non è l’esito del venir meno dei corpi sociali (di cui si può anche essere prigionieri), bensì della capacità di leggere il proprio tempo. A questo, e insieme a chi vorrà, sto lavorando. Non è arrendersi, ma la convinzione che le scorciatoie si rivelano spesso ingannevoli. Sperando che nel frattempo non vengano fatti troppi danni.
caro Michele,
nella tua dello scorso 26 febbraio, il cui contenuto condivido, terminavi con l’auspicio che nel frattempo, mentre si cerca di ragionare, di leggere il tempo attuale, non si debbano registrare troppi danni. La realtà purtroppo supera la fantasia: le rovine fumanti alle nostre spalle crescono a vista d’occhio; invece di allontanarci, ci stiamo incamminando verso il centro del cratere attivo. Ultima spiaggia, in attesa dell’astronave che ci porti verso i pianeti dell’acquario, sostenere Orlando quando, e se ci sarà mai, un congresso PD del dopo Renzi. Agli amici di DP (curioso che un ex di AO come Bersani rispolveri la sigla), di SI, di Possibile, di tutte le sigle minori, dobbiamo avere il coraggio di dire che sull’astronave i posti sono limitati e per un viaggio di 30 anni luce il cibo è razionato.