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(27 settembre 2016) Domenica 25 settembre si è votato in Europa per due referendum popolari a carattere “regionale“, entrambi figli di questo tempo segnato dai nazionalismi e dalla paura. Nel Canton Ticino (Svizzera) e in Republika Srpska (Bosnia Erzegovina) i quesiti erano formalmente molto diversi fra loro ma non nel loro fondo culturale.
Nel Canton Ticino il titolo del referendum promosso dalla Lega Ticinese e dall’Udc (partito della destra che ha vinto le ultime elezioni in Svizzera) era chiaro: “Prima i nostri“. Vi si chiedeva che “sul mercato del lavoro venga privilegiato a pari qualifiche professionali chi vive sul suo territorio per rapporto a chi proviene dall’estero (attuazione del principio di preferenza agli Svizzeri)‘. Inoltre si chiedeva che “nessun cittadino del suo territorio venga licenziato a seguito di una decisione discriminatoria di sostituzione della manodopera indigena con quella straniera (effetto di sostituzione) oppure debba accettare sensibili riduzioni di salario a causa dell’afflusso indiscriminato della manodopera estera (dumping salariale)‘.
In Republika Srpska il tema referendario riguardava invece la data del 9 gennaio come festa della repubblica, proclamata nel 1992 dall’allora leader nazionalista Radovan Karadzic. Seguirono quattro lunghi anni di guerra, oltre centomila morti, due milioni di sfollati e profughi. La festa della repubblica è sopravvissuta agli accordi internazionali di pace, ad un dopoguerra che risentiva della pulizia etnica e di un difficile ritorno, al Tribunale internazionale de l’Aja contro criminali di guerra considerati eroi nazionali, a testimoniare che in fondo la guerra l’avevano vinta proprio loro, quei criminali (di ogni parte) che avevano indossato i panni del nazionalismo. “Volete che il 9 gennaio venga festeggiato come “Giorno della Repubblica Srpska“?‘ recitava il quesito proposto dal presidente Milorad Dodik, un passato di oppositore a Karadzic ma che da tempo ne ha assunto il ruolo cavalcando l’incubo nazionalista dal quale i serbi di Bosnia non sembrano intenzionati ad uscire.
Due quesiti apparentemente innocui, considerato da un lato che la disoccupazione in Canton Ticino è molto bassa e che gli accordi internazionali firmati dalla Svizzera con l’Unione Europea rendevano il referendum poco più che simbolico, dall’altro che la festa del 9 gennaio – per quanto discriminatoria verso i non-serbi che vivono nella Srpska – viene celebrata da un quarto di secolo e non è poi più discriminatoria del nome stesso delle due entità costitutive della Bosnia Erzegovina uscita dagli accordi di Dayton.
Ma i simboli non vanno affatto sottovalutati, espressione culturale del tempo post ideologico che ha sprofondato il mondo nello “scontro di civiltà“. In piena sintonia con la costruzione di muri e le barriere di filo spinato a protezione degli stati nazione, morenti ma non per questo meno aggressivi.
E la risposta nel Canton Ticino come in Srpska è stata “sì“, con il 58% dei suffragi nel cantone di lingua italiana per dare un messaggio a quei 60 mila italiani che ogni giorno transitano dal valico di Brogeda, con la “quasi unanimità“ (99,8%) nell’entità serba di Bosnia per dire ai “non-serbi“ che vi hanno fatto ritorno che quella non è la loro terra. Forse con l’unica attenuante che le percentuali dei votanti sono state piuttosto basse, del 45% (Canton Ticino) e del 55% (Republika Srpska), ma non tanto distanti dalla partecipazione fisiologica delle normali consultazioni elettorali. Nell’uno e nell’altro caso la comunità internazionale ha parlato dell’inefficacia del voto, ma sarebbe grave non comprendere i segnali di quel che sta avvenendo in questa Europa dove un crescente nazionalismo spinge verso il ritorno agli stati nazionali e alla loro (presunta) sovranità. Ovvero alla fine del progetto politico europeo.
Per un paese come la Svizzera che ha fatto dell’offshore la propria identità (oltre che fonte spregiudicata di ricchezza finanziaria) potrebbe non essere un problema, anche se l’interdipendenza investe tutti, compresi i discendenti di Guglielmo Tell. E infatti il vento della paura soffia anche lì.
Per la Bosnia Erzegovina – sfera di cristallo sul nostro presente – suona invece come una beffa che il Consiglio dell’Unione Europea abbia dato seguito, solo qualche giorno fa, alla richiesta di adesione all’Unione Europea. Si apre così un lungo processo formale fatto di verifiche di compatibilità prima che la BiH possa accedere allo status di “paese candidato“. Chissà come e se l’iter arriverà a conclusione. I bosniaci dicono sorridendo che entreranno nell’Unione quando l’Europa non si sarà più. Sempre che altri referendum “per evitare che il popolo serbo perda la possibilità di poter decidere del proprio destino‘ – come già annunciato da Dodik – non riportino la Bosnia Erzegovina in un nuovo vicolo cieco.