«Bugiardi di tutto il mondo, unitevi!»
23 Maggio 2016Il blu e il verde
25 Maggio 2016“La maledizione di vivere tempi interessanti‘ (43)
di Michele Nardelli
Le iniziative giudiziarie che investono l’intreccio fra affari e politica in Italia fanno parlare di una nuova stagione di “mani pulite“. La prima di queste stagioni, per quanto doverosa, non ha sortito grandi cambamenti sul piano della moralizzazione della nostra società. Al contrario ha avuto come effetti collaterali una crescente deresponsabilizzazione nella pubblica amministrazione e, sul piano politico, il farsi largo di un becero populismo all’insegna dei furbi e dei mascalzoni.
In assenza di una seria elaborazione capace di intervenire sul retroterra culturale prima ancora che sulle regole, l’intreccio del malaffare è cresciuto senza trovare anticorpi. I processi di finanziarizzazione dell’economia, intrinsecamente criminali, hanno fatto il resto. Non oso immaginare quel che produrrà questa nuova stagione di cui peraltro si scorgono sin d’ora i segni. Con quasi la metà degli elettori che nemmeno più si avvale del diritto di voto e con una sempre maggiore deriva plebiscitaria.
Oggi infatti il problema non è più solo riconducibile alla degenerazione dei partiti di cui parlava Enrico Berlinguer nella sua famosa intervista a Eugenio Scalfari del 28 luglio 1981 sulla “questione morale“1 ma ad una cultura diffusa che nel tempo si è insinuata nei comportamenti quotidiani e della quale i partiti non sono che lo specchio.
Berlinguer colse in quell’intervista un tema cruciale – l’intreccio fra affari e politica – che ben presto si rivelò la tomba della “prima repubblica“. Ma non si accorse che quello che lui andava sostenendo valeva per l’insieme del sistema dei partiti, compreso il suo per il quale rivendicava invece una presunta “diversità“, laddove la politica veniva ridotta ad occupazione delle istituzioni e l’etica tanto sbandierata ridotta a brandelli dalla doppiezza che la distinzione fra fini e mezzi portava con sé.
La diversità non c’era e Berlinguer è stato sepolto dall’onda degli anni ’80 sulla cresta della quale si sono affermati il successo, la meritocrazia (che non è il merito), il business. E visto che “uno su mille ce la fa“, gli altri novecentonovantanove sono rimasti a macerare nell’invidia e nel rancore. Sentimenti coltivati lungo un ventennio nel quale la dimensione comunitaria è stata cancellata, dove lo spaesamento ha prodotto solitudine, dove le articolazioni sociali sono diventate corporazioni (secondo lo schema che bene ha descritto il Censis lo scorso anno) e dove la politica ha subito una profonda metamorfosi che ha trasformato progressivamente i partiti in apparati di consenso.
C’è stato anche dell’altro, sia chiaro. La stagione dell’Ulivo così come le grandi mobilitazioni per un diverso mondo possibile indicavano altre sensibilità ed altre vie d’uscita, ma tutto questo avrebbe richiesto un cambio di paradigma nelle idee come nelle forme dell’agire che non c’è stato. Lo imponeva la fine di una storia che invece abbiamo continuato a leggere con gli occhiali di prima.
E anche in questa terra, il Trentino, malgrado gli anticorpi di una comunità capace come poche altre di partecipazione e dove per anni si è cercato di sperimentare strade originali che pure sono servite a realizzare un’anomalia positiva rispetto ad un arco alpino in preda al leghismo e al berlusconismo, i segni del tempo e dell’omologazione sono oggi evidenti come la crisi della sua classe dirigente.
Il fatto è che la risposta alla questione morale non è la cultura della legalità. Non basta “allacciarsi la cintura“2 per cambiare, non servono i riti dell’antimafia né i supereroi, né guardare la televisione il giovedì sera, quando anche l’indignazione diventa spettacolo, come scriveva l’amico Luca Rastello. C’è bisogno di uno sguardo lungo capace di cogliere i segni del tempo, serve un approccio diverso che faccia tesoro degli errori e delle tragedie del Novecento, occorre ricostruire un racconto e una progettualità diversa che rimetta al centro la dignità umana.
Ma di tutto questo non c’è quasi più traccia nella politica (non solo nei partiti ma nell’insieme dei corpi intermedi, società civile compresa), il “campo“ e diventato via via sempre più impraticabile fino a confondere la vittoria con la sconfitta.
Ora, se la politica smarrisce il suo significato di progetto collettivo, se il pensiero inaridisce e il cinismo prende il posto della meraviglia, se l’impegno politico avviene in funzione del tornaconto personale, interesse o carriera che sia, perché mai dovremmo stupirci di una questione morale irrisolta e di nuovo affrontata con la cultura delle manette (e della falsa coscienza)?
1 Enrico Berlinguer e la “questione morale“, vedi allegato
2“Il contestatore“ da “Il presente come storia“ di Luca Rastello (edizioni dell’asino)