Un’omissione pericolosa
22 Dicembre 2015Segni del tempo
10 Gennaio 2016“La maledizione di vivere in tempi interessanti‘ (30)
di Michele Nardelli
(22 dicembre 2015) La legge finanziaria rappresenta l’atto politico più importante che il Consiglio Provinciale è chiamato a discutere e a varare nel corso dell’anno. Da esso non dipendono solo le dotazioni finanziarie degli assessorati, ma le linee di fondo, le priorità, l’orizzonte… insomma la visione strategica che caratterizza il governo della nostra comunità.
Questo sguardo lungo è ciò che dovrebbe emergere – prima ancora dei numeri (e delle trattative – legittime, per carità – che mettono in moto) – dalla relazione del presidente Ugo Rossi sullo stato del Trentino e del suo interagire con i flussi della globalizzazione.
Spiace doverlo affermare, ma di questo orizzonte, di una visione capace di coniugare la dimensione territoriale con quella sovranazionale (europea, mediterranea, adriatica, alpina, dolomitica…) nella relazione alla legge finanziaria 2016 proprio non c’è traccia. A sconcertare è la povertà culturale ancor prima di quella politica.
In un passaggio di tempo nel quale gli scenari richiedono nuovi paradigmi, quelli che vengono proposti sembrano copiati dal lessico della banalità politica corrente. L’obiettivo indicato per il Trentino è “una stagione di nuova crescita“, ovviamente nel paradigma della “crescita sostenibile“.
Forse il presidente della PAT nemmeno sa che nel 2011 (ultimo dato disponibile) in Trentino il “giorno del superamento“ nel consumo delle risorse prodotte dai propri ecosistemi è stato il 6 giugno e che dunque per più della metà dell’anno (non credo che la situazione sia di molto cambiata) abbiamo usato e continuiamo ad usare risorse prodotte altrove. In altre parole, siamo insostenibili!
E allora, che cosa cavolo significa “crescita sostenibile“? Se i nostri consumi sono al di sopra del lecito, perché mai dovremmo puntare ancora sulla crescita? E che cosa significa l’aggettivo sostenibile? Sostenibile rispetto a che cosa? Nello scenario da ultima spiaggia rispetto allo stato di salute del pianeta delineato nella Conferenza di Parigi, l’unico orizzonte che sappiamo mettere in campo è quello della crescita del PIL?
Quale sia il Trentino del futuro che s’immaginano l’attuale giunta e il suo presidente dalla relazione alla Finanziaria non si evince. La “crescita“ necessaria al Trentino dovrebbe riguardare la qualità, o meglio la riqualificazione tanto della sua economia come del suo welfare e delle forme di coesione sociale. Questo richiederebbe però una disamina attenta dei motivi di criticità che stanno emergendo ormai da tempo (e che dunque non sono riconducibili unicamente a questo esecutivo) nell’agricoltura come nell’industria, nel sistema sanitario come nella mobilità, nel credito come nel tessuto sociale e associativo. Ma di tale disamina non c’è traccia. Laddove ci fosse, questa rimane chiusa a chiave in qualche cassetto di Piazza Dante.
Al contrario, le criticità che si evidenziano sono quelle ascrivibili agli umori localistici o corporativi, come se il tema della sanità riguardasse i presidi locali e non invece l’incapacità di attrarre eccellenze (e dunque la necessità di fare sistema almeno con il Sud Tirolo); come se la mobilità fosse la PiRuBi e non la dislocazione delle funzioni sul territorio e, semmai, il progetto troppo velocemente accantonato del collegamento delle valli su rotaia; come se l’assetto industriale potesse riqualificarsi con gli incentivi o gli sgravi fiscali anziché nell’interrogarsi sul carattere di filiera delle produzioni (e dunque sulla loro unicità); come se la coesione sociale si alimentasse con il folklore invece che attraverso i percorsi della conoscenza, dell’apprendimento permanente e della formazione di una diffusa classe dirigente. Potrei continuare…
Quando nei mesi scorsi ho insistito sul pericolo di una progressiva demolizione dell’anomalia politica trentina sperimentata, fra felici intuizioni e latenti contraddizioni, nel corso di ben tre legislature, non era tanto per dire come si stava meglio nel passato, ma come nel nuovo corso politico verso questo tratto di storia recente (che ha fatto la differenza rispetto ad un arco alpino segnato dal berlusconismo e dal leghismo) non solo c’era scarsa consapevolezza ma anche aperta avversità. Da qui la cancellazione della riforma istituzionale del 2006 imperniata sulle Comunità di Valle (intese come articolazione amministrativa invece che come diversa dislocazione dei poteri), l’apertura verso la realizzazione della Valdastico (senza comprenderne il significato paradigmatico), gli ostacoli frapposti al cablaggio del Trentino (tanto che ci siamo ridotti a fanalino di coda), gli ostacoli frapposti all’applicazione delle leggi più qualificanti e così via.
Anche a prescindere da tutto questo, ciò che non emerge dalla relazione sullo stato del Trentino (dalla Finanziaria come dal dibattito in aula) è la necessità di interrogarsi sulla navigazione della nostra comunità nel tempo dell’interdipendenza, ovvero sul nostro modello di sviluppo e sulla nostra sostenibilità. Abbiamo invece assistito alla rincorsa del ventre conservatore fatto di interessi e spinte corporative che assomigliava ad una trattativa da bazar, per usare la non proprio lusinghiera immagine proposta dalle organizzazioni sindacali proprio per descrivere il confronto sulla Finanziaria.
Una mancanza di visione niente affatto compensata dalla contestuale presentazione del libro “Territori“ che propone gli interventi del presidente Ugo Rossi raccolti da Paolo Pombeni nella sua rivista online “Mente politica“. Perché il solco nel quale si muove l’attuale leadership è la fotocopia sbiadita del “renzismo“ e il “neocentralismo“ è una cultura della quale non è affatto esente l’attuale amministrazione provinciale. E, infine, perché il ruolo degli intellettuali dovrebbe essere quello di sferzare il potere, non di blandirlo.
Vorrei dire sommessamente che, malgrado le graduatorie sulla qualità del vivere, la fatica del Trentino in questo passaggio di tempo non ha più di tanto a che fare con la riduzione delle risorse disponibili, quanto piuttosto con la crisi di sguardo e di pensiero con cui leggere il presente e immaginare il futuro. Non è un problema solo della politica, riguarda ogni segmento della nostra comunità. Penso che si debba ripartire proprio da qui.
2 Comments
Dalla riunione di t#e e dalle riflessioni di Michele Nardelli un pensiero natalizio con disponibilità a lavorare sul tema delle diverse autonomie oggi in sofferenza.
Mentre nelle vie e nelle piazze spagnole si diffonde il canto del “Pueblo unido” e Pablo Iglesias pone un aut – aut ai socialisti (sì ad un governo di alternativa secca a condizione dell’appoggio al referendum indipendentista catalano), in Italia si fanno gli scongiuri (Renzi in testa) per il mantenimento della legge elettorale maggioritaria recentemente varata dal Parlamento, portando il caso spagnolo come esempio di ingovernabilità. La sinistra italiana, e a maggior ragione quella trentina, non hanno nulla da dire in proposito? Ci si sta allontanando a velocità fotonica dalla prospettiva federalista, la sola entro cui ha un senso pensare ad un’Europa di Stati e Regioni retti con il consenso democratico delle popolazioni, e mentre la Spagna indica la strada maestra da seguire qui ci si gingilla con alchimie novecentesche, guidati da un ceto politico talmente compromesso con logiche di potere da far apparire trasparenti persino i trasformisti dei tempi della destra e sinistra storica. Dove è finita la cultura autenticamente autonomista, quella che pone la difesa e salvaguardia delle prerogative di autogoverno di un territorio alla base dell’agire politico? Colpisce l’assenza di voci critiche di fronte alla resa incondizionata allo status quo, che vuol dire perdita di ogni forma di autogoverno; nulla si sa, in vista della costituzione di una consulta provinciale, del lavoro svolto da una commissione di esperti incaricata di elaborare una proposta di terzo statuto. Con l’associazione “più democrazia in Trentino” abbiamo più volte lanciato l’allarme per la scarsa trasparenza con cui vengono affrontate questioni istituzionali che toccano la vita quotidiana dei cittadini, che si parli di statuti comunali e provinciali di modifiche costituzionali o di autonomia universitaria. L’affermazione recente del Rettore Collini (“all’Università di Trento è in atto una rivoluzione copernicana”, L’Adige) è passata sostanzialmente sotto silenzio: qualche sporadico intervento di docenti dell’Ateneo e una nota a margine di Lucia Maestri, Presidente della V commissione legislativa durante la discussione sul bilancio provinciale. Parrebbe opportuno non lasciar cadere l’affermazione del Rettore e verificare se oggi di rivoluzione si può parlare e in che termini, in un Ateneo che lungo il suo mezzo secolo di vita di rivoluzioni vere o presunte ne ha vissute più d’una. Partirei, prendendo spunto dal capitoletto del libro di Mauro Marcantoni e Franco Sandri dedicato “all’avventura trentina“ di Paolo Prodi in cui si parla dell’Università trentina come di un progetto riuscito solo in parte per via del naufragio dell’idea di un’università regionale Trento-Bolzano coltivata dalla coppia Prodi-Kessler. Si trattò, più precisamente di quanto non affermino gli autori, di un doppio fallimento di un’idea, se non rivoluzionaria in sé, certamente ardita: quello di tenere assieme, con forte autonomia statutaria, l’università regionale da un lato e Trento cerniera fra i ben più vasti mondi che dall’età moderna in poi hanno costituito la civiltà europea, operazione possibile solo a condizione di una stretta sinergia, che allora mancò, fra le facoltà di Lettere e Giurisprudenza e gli istituti umanistici dell’allora Istituto trentino di cultura. Di un precedente fallimento, ma qui si entra nel campo dell’archeologia storica, si può parlare riguardo all’alberoniano progetto di “università critica” , che per un breve lasso di tempo inserì Trento come luogo sperimentale nel circuito globale della contestazione sessantottina. Oggi, in un’Europa che rischia di smarrire la propria missione civile, il rilancio di Trento, che ha ancor viva nelle sue carni le cicatrici delle guerre, come città del dialogo interreligioso, dell’accoglienza, della tolleranza reciproca, è la vera rivoluzione necessaria, ed è a questo appuntamento con la storia che anche l’Università viene chiamata. L’inquietudine fra i cittadini della nostra regione sta raggiungendo livelli di guardia senza che da parte dei decisori politici vi sia la capacità o la volontà di porre in essere forme partecipative (i referendum propositivi) senza le quali un sistema democratico non può compiutamente definirsi tale. Emblematico, riguardo l’attacco alle forme di autogoverno, quanto ci viene dalla crisi bancaria alla quale si intende porre rimedio negando alla radice il principio della partecipazione (una testa un voto). E’ giunta l’ora di dar vita ad una costituente popolare attraverso la quale il popolo trentino si faccia protagonista del proprio destino.
Questo intervento di Vincenzo merita almeno un commento perché l’orizzonte che propone ha molto a che vedere con la crisi che attraversa la nostra comunità che è, a mio avviso, prima ancora che politica è di pensiero. Come ho scritto, la cosa più inquietante della relazione del presidente Rossi alla Finanziaria sta proprio qui, nell’incapacità di delineare una prospettiva che in questo passaggio di tempo non può che essere europea.
Questo dovrebbe essere del resto il profilo del terzo statuto di autonomia. Se infatti il primo statuto ebbe come oggetto il riconoscimento della specialità, il secondo il reale autogoverno delle comunità trentina e sudtirolese/altoatesina, il terzo dovrà immaginare questa nostra terra come parte di un progetto politico sovranazionale per ridisegnare – attraverso le esperienze più avanzate di autogoverno – l’idea stessa di Europa.
Ma come fare se le dinamiche culturali e politiche che oggi conosciamo, in Italia come in Europa, vanno esattamente nella direzione opposta? Se si ergono muri e reticolati? Se le identità sono vissute in sottrazione anziché nella loro unica possibile evoluzione che la storia ci ha consegnato, ovvero quella – magari conflittuale – dell’incontro? Se preferiamo difendere con le unghie quel che abbiamo, anche a costo di sentirci prima ancora di essere in guerra?
Qui non si tratta solo di una classe dirigente inadeguata. C’è qualcosa di più profondo che nasce nello sconquasso di un secolo, il Novecento, non ancora collettivamente elaborato, nello spaesamento che la fine delle identità sociali ha prodotto, nella solitudine che viene dal vuoto di pensiero, nell’analfabetismo di ritorno che il delirio consumistico ha portato con sé…
E allora l’appello di Vincenzo per «una costituente popolare attraverso la quale il popolo trentino si faccia protagonista del proprio destino», di per sé condivisibile come necessità di non lasciare da sola la politica quando si ridisegnano – ed occorre farlo – i fondamentali del vivere collettivo, richiede un percorso paziente di ricostruzione di senso capace di attraversare ogni segmento della nostra comunità. Una mobilitazione delle idee di cui, a guardar bene, cominciamo a scorgere qua e là qualche timida traccia. In fondo, “territoriali#europei” nasce proprio per questo.