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di Michele Nardelli
(14 gennaio 2015) Non sono mai stato un fanatico delle primarie. Ammetto di averle considerate, ad un certo punto e a fronte della crisi profonda dei corpi intermedi, uno strumento per rimettere in moto l’ingranaggio arrugginito dei partiti. Un po’ forse è stato così, ma con l’andare del tempo mi sono ricreduto, tanto che ora le considero come parte integrante di quella cultura plebiscitaria che ha devastato il senso stesso della politica.
La quale, almeno nella sua accezione più nobile, richiede capacità di ascolto e di dialogo, lo sguardo curioso dell’analisi e quello paziente della sintesi, l’ebbrezza dell’elaborazione originale ma anche la responsabilità del compromesso… caratteri che non corrispondono alla logica dei leader mediatici, ancora meno alla visione manichea (e padronale) del “chi vince piglia tutto“. L’evidente fastidio che queste figure della post modernità avvertono verso la dimensione collettiva parla da solo.
Non a caso si è stabilito che i proprietari dei partiti sono gli elettori. E dunque l’eletto. Un imbroglio cui vengono affidate tanto le scelte programmatiche, come la “selezione“ della classe dirigente. Si sono sterilizzate le forme partecipative, sostituite dal tam tam mediatico nel rapporto diretto (gerarchico) fra il capo e l’elettore il quale da parte sua, considerata la segretezza del voto, può orientare le scelte di un partito anche quando con quello stesso soggetto politico non ha nulla a che fare.
Come stupirsi quindi di una partecipazione alle primarie sempre più frequentemente inquinata da soggetti estranei al partito o alla coalizione che hanno interesse al condizionamento politico, in qualsivoglia direzione? Come non mettere in conto fenomeni di partecipazione lobbistica indotti dal sostegno verso il personaggio del proprio territorio o espressione di un interesse particolare o, ancora, dai poteri forti, nel più classico dei meccanismi di scambio politico?
La risposta alla crisi della politica non può venire dalla cultura plebiscitaria. Se la politica secondo la recente indagine del Censis viene collocata all’ultimo posto nel grado di fiducia degli italiani, primarie o non primarie, allora forse dovremmo ricercare altrove le ragioni della sua crisi. Ovvero nell’incapacità di interpretare questo nostro tempo, nella mancanza di visione, nella perdita della dimensione collettiva e nello smarrirsi del valore pedagogico e formativo dei corpi intermedi.
Restituire valore alla bellezza del pensiero pulito, non le tifoserie.
2 Comments
Condivido questa visione, soprattutto il fatto che la politica deve ascoltare e dialogare con i cittadini e per fare questo non basta una giornata di primarie. Ma mi chiedo: per come si sta strutturando il Partito Democratico, soprattutto a Roma, c’è ancora la possibilità di trovare spazi di discussione e confronto tra militanti e dirigenti? Domani sera si riunisce il mio circolo e avrò una prima risposta…
Condivido pienamente: mentre posso nutrire dubbi sulle primarie di coalizione che in qualche caso possono avere un senso, al contrario sono sempre stato convinto che sia assurdo ricorrere a primarie aperte ai non iscritti per eleggere organi del partito, come fa il PD per il segretario