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3 Gennaio 2015
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Tempi interessanti 3

di Michele Nardelli

Nei giorni scorsi c’è stato lo sciopero generale nazionale promosso da Cgil e Uil, cui hanno partecipato in forme proprie anche Ugl e Sindacati di base. La piattaforma dello sciopero era contro le politiche sul lavoro del Governo Renzi (Jobs act) e sulla sterilizzazione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Ora, a prescindere dalle percentuali di adesione e dalla partecipazione per altro non oceanica alle manifestazioni, tutto è come prima.

Vorrei allora provare a fare qualche considerazione che si va ad aggiungere a quanto ho già scritto tempo fa su questo sito (“Articolo 18, un dibattito fuori dal tempo“).

Parto col dire che ritengo l’impostazione del governo Renzi tanto inefficace quanto sbagliata. A partire dall’analisi della crisi, considerata erroneamente congiunturale, il governo insegue la chimera di una ripresa economica che non ci sarà. Si mettono in campo politiche che avranno come unico effetto quello di redistribuire reddito dai lavoratori alle imprese e che queste non reinvestiranno nelle attività produttive ma, come hanno fatto in questi ultimi anni, finanziarizzando gli utili (compresi gli sgravi fiscali) ed investendo tutt’al più nelle produzioni gli aiuti pubblici.

Se la crisi è strutturale, è necessario interrogarsi:

  • sul rapporto fra investimenti finanziari e produttivi, laddove tassare i primi è anche condizione per far tornare conveniente investire nell’attività produttiva;

  • sulla qualità delle produzioni, il cui valore aggiunto è dato dall’innovazione e dalla ricerca, certo, ma soprattutto dall’unicità del prodotto in relazione alle vocazioni territoriali;

  • sulla natura del lavoro come fattore di coesione sociale e di partecipazione responsabile, ma anche come una parte della propria esistenza che non la esaurisce.

Occorre in altre parole mettere in discussione l’attuale modello di sviluppo (e di relazioni) in un contesto che, considerata l’interdipendenza, non può essere che sovranazionale (europeo, mediterraneo…) e territoriale, ovvero capace di dare valore alle caratteristiche e ai saperi regionali. Renzi e la sua compagine governativa non si pongono affatto l’obiettivo di mettere in discussione il modello di sviluppo che abbiamo fin qui conosciuto, bensì quello di deregolamentare il lavoro (strano modo di pensare l’uguaglianza fra garantiti e non garantiti) nella speranza di attrarre investimenti per un’economia che continua ad essere – tranne l’agroalimentare (e non sempre nemmeno questo settore) – senza qualità.

La seconda considerazione riguarda la mobilitazione sindacale e le sue forme di lotta. La questione dello Statuto dei lavoratori e dell’articolo 18 si trascina da molti anni, sicuramente da quel 23 marzo 2002 quando la più grande manifestazione sindacale del dopoguerra (eravamo in tre milioni al Circo Massimo, quasi un’insurrezione) coincise con la situazione di massimo isolamento del sindacato allora di Cofferati e con la sconfitta politica che ne seguì con il “Patto per l’Italia“ del governo di centrodestra siglato anche da Cisl e Uil qualche mese più tardi. Ricordo il senso di frustrazione per quella situazione di impotenza (nella quale riapparve lo spettro del terrorismo con l’uccisione di Massimo D’Antona) e d’altra parte di consolidamento di quel blocco sociale che nel 2001 aveva riportato al governo il signore di Arcore.

Se la mobilitazione di allora non riuscì a difendere quel che si era conquistato negli anni ’70 (reso possibile anche grazie all’esclusione dal tavolo delle trattative dei 3/5 dell’umanità), come immaginare di riuscirci oggi con la frammentazione del lavoro, la delocalizzazione divenuta ricatto permanente, la precarietà diventata sistema, la paura e quella porzione di umanità che rivendica il diritto ad avere e vivere come gli altri?

Bisognava interrogarsi su un modello di sviluppo oltremodo insostenibile, evitando di cadere nell’equazione “rilancio dei consumi/aumento dell’occupazione“, occorreva ricostruire un tessuto sociale (e culturale) oltre gli stessi confini nazionali, che sapesse parlare al lavoratore stabile come al precario, ripensare un mondo del lavoro nel quale per decenni anche in Italia si son fatte parti uguali fra disuguali ed insieme riflettere sui processi di crescente spaesamento, infine ricostruire le modalità di dialogo con il lavoro, ivi compreso l’interrogarsi sull’efficacia delle forme di lotta. Tutto questo corrispondeva alla necessità di un cambio di sguardo, di un confronto sociale capace di guardarsi dentro e non di cercare, come spesso avviene, il colpevole, dove ovviamente la responsabilità è sempre di qualcun altro.

Quel che è avvenuto invece, tanto nel mondo sindacale come nella società, è stato la riproduzione di un vecchio cliché, senza nemmeno comprendere che gli anni del berlusconismo avevano lasciato il segno anche e soprattutto sul piano culturale, che nella società a prevalere erano il corporativismo del “si salvi chi può“ o del “non nel mio giardino“, quasi si potessero difendere delle posizioni a prescindere dai nuovi contesti interdipendenti. Una nitida fotografia di quel che è avvenuto in questo paese l’ha scattata il Censis qualche giorno fa con l’immagine delle sette giare (vedi il rapporto nella homepage).

Ascolto gli slogan, osservo le modalità, mi interrogo sulle reazioni e su ciò che rimane nella coscienza delle persone. Dieci anni fa era frustrazione, oggi è prevalentemente rancore. Verso un governo che mentre proclama il proprio rispetto per le piazze poi altro non sa dire che “non ci faremo condizionare dai sindacati, andremo avanti per la nostra strada“, come se la dialettica sociale e politica fosse una iattura, verso una politica che preferisce assecondare i sondaggi e cavalcare gli umori piuttosto che comprendere la realtà che cambia e cercare nuovi approcci, verso chi ti insidia nelle tue certezze (e nei tuoi privilegi, per relativi che siano) predisponendosi alla guerra, piuttosto che educarsi al fare meglio con meno. Immagine naïf, ma poi non molto lontana dalla predicazione di papa Francesco.

Intanto le borse vanno giù perché il prezzo del greggio è in caduta libera. Sembra un mondo alla rovescia quello dove, a fronte della limitatezza delle risorse, si misura il benessere con l’aumento dei consumi. Mi viene in mente una bella immagine dell’amico Luca Rastello: “piove all’insù“.

2 Comments

  1. e.b. ha detto:

    Due fazioni si affrontano con cattiveria fratricida. Per decidere chi comanda nella provincia Italia.
    Siamo alla dépense di energie positive, indotte a guerreggiare tra loro.
    Si rivolgono allo stesso popolo, parlano la stessa lingua, usano la stessa parola d’ordine, “cambiare verso”. Che è tutta genuinamente renziana, con una sua pregnanza – suggerisce di mutare direzione e di andarci – ma diventa piatta rivendicazione nei comizi sindacali.
    I palchi di piazza S.Giovanni a Roma del 25 ottobre e della contemporanea Leopolda a Firenze: estetizzanti sfide contrapposte, bandiere rosse contro camicie bianche.
    Ma il lavoro?
    L’obiettivo dichiarato della CGIL è creare nuova e buona occupazione, per questo ci vuole “un piano straordinario per l’occupazione, basato sull’intervento pubblico, finanziato con una patrimoniale sulle grandi ricchezze”.
    Ma chi crea lavoro è l’impresa, secondo Maria Elena Boschi (da Vespa). E Landini (a Ballarò) dice che, per quante misure a favore si prevedano per le aziende, se queste non hanno ordini, cioè lavoro, assunzioni non ne faranno. Il ministro Poletti (in Parlamento) conferma che le nuove regole del jobs act servono a creare un contesto favorevole, non a creare direttamente lavoro.
    Ora, l’obiettivo ’patrimoniale’ è straordinariamente difficile, la parola stessa alza un muro di ostilità intorno a chi la propone, la maggior parte delle forze politiche è contraria, la stessa CGIL pone l’obiettivo senza riuscire ad attribuirvi quella evidenza da renderlo prioritario se non esclusivo. La patrimoniale viene inserita in un elenco rivendicativo assieme alla lotta all’evasione fiscale, al rinnovo del contratto dei lavoratori pubblici, all’estensione del bonus degli 80 euro ai pensionati, alla soluzione del problema degli esodati, alla lotta al precariato e molto altro.
    Ma prima, in ogni caso, viene la difesa dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori.
    A tal proposito: Susanna Camusso nel suo intervento a Roma il 25 ottobre ha auspicato il ritorno alla Carta di Nizza (contestata dai sindacati al momento della sua proclamazione nel dicembre 2000), la quale prevede, all’articolo 30, che “Ogni lavoratore ha diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali”. Sicuri che la nuova regolamentazione che si va prospettando dell’articolo 18 non sia contenuta nel perimetro legislativo delineato dalla Carta di Nizza?
    Per la CGIL ci vorrebbe “un big push pubblico per creare lavoro con un new deal europeo”. Matteo Renzi ha cercato – come i suoi predecessori – e cerca di attenuare la linea del rigore dell’Europa e, con il viatico di riforme opinabili, sembra ottenere qualche apertura di credito (piano Junker e la lettiana garanzia giovani).
    Nel congresso nazionale di Genova del 1949 Di Vittorio sigla il suo piano del lavoro con una dichiarazione politica esplicita: per contribuire alla sua realizzazione, i lavoratori italiani “malgrado le loro condizioni di miseria saranno felici di fare nuovi sacrifici”.
    Oh gran bontà dei cavalieri antiqui!
    E’ certo urgente recuperare risorse per creare lavoro, non quindi per abbassare genericamente le tasse o cose simili. Ma bisogna anche decidere quale direzione prendere, quale lavoro, quali attività, quale vocazione del sistema paese dovrà essere privilegiata: quella di attrarre finanziamenti esteri – la preoccupazione di Ichino – quella di conquistare quote di mercato con la competitività , quella che dice “non possiamo a fare a meno di una grande industria siderurgica, di una grande industria automobilistica, di una compagnia aerea di bandiera…”. Oppure, quella che punta ad una crescita endogena, eco e autosostenibile – autocentrata si diceva un tempo – in sintonia con un paese che sa riconoscersi nel suo peculiare genius loci: ciò che è un dovere di fronte al mondo e ciò che il mondo si aspetta da noi.
    Dovremmo sentirci parte dello stesso insieme – quelle due fazioni evocate all’inizio devono rompere le rispettive giare, mescolarsi – collaborare alacremente, potremmo evitare così le botte della polizia agli operai che difendono il posto di lavoro ma soprattutto indicare una prospettiva, non una resistenza.

  2. Michele ha detto:

    Bella riflessione, Edoardo. Condivido in pieno.