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Tempi interessanti (1)

di Michele Nardelli

Forse sarà “la maledizione di vivere in tempi interessanti“ come amava dire Hannah Arendt, ma non trovo parole più efficaci per descrivere quel che avviene intorno a noi.

Non ha torto Papa Francesco nel descrivere uno scenario da terza guerra mondiale, una guerra che non richiede di essere dichiarata e che si svolge nelle forme della postmodernità: la cancellazione della storia dell’altro, la fine del diritto internazionale e del monopolio statuale della forza. I tagliagole hanno ben poco di arcaico, così i nuovi pirati: armamenti sofisticati ma anche conti correnti nei paradisi fiscali, pozzi petroliferi e porti dove tenere le petroliere in attesa di riscatto. In Libia, miracolo dell’esportazione della democrazia da parte dell’Occidente, si confrontano settanta eserciti privati. Ad Hong Kong, non so ce ci avete fatto caso, la repressione dei giovani che rivendicano libertà e democrazia è stata affidata alla mafia… E quest’ultima la fa da padrona in ogni luogo dove la politica, nella sua insipienza, lascia il campo libero nel controllo della finanza, dell’economia, della gestione del territorio, delle stesse istituzioni. Più deboli sono queste ultime, più forti sono i poteri paralleli, in ogni parte del mondo.

Richiedono rinnovamento, di certo. Hanno bisogno di innervarsi con nuove forme partecipative che pure faticano a darsi forma compiuta. Ma sono la forma ineludibile dello stato di diritto e della tutela dell’individuo dal potere del più forte. Parlo delle istituzioni, a partire dai Comuni ma ad ogni livello, oggi sotto attacco dai poteri forti che li considerano un intralcio al dispiegarsi del libero mercato. Riprendo qui il pensiero dell’amico Emilio Molinari sul controllo extra-istituzionale dell’acqua, che vi consiglio di leggere (lo trovate nella home page). Dovremmo averne cura, insomma. Al contrario, in questo tempo, le istituzioni (e la politica) sono il bersaglio preferito di una società atomizzata e smarrita: il problema è che nella ricerca del consenso purchessia, la politica liscia il pelo all’antipolitica, favorendo logiche plebiscitarie, il rafforzamento degli esecutivi in nome della governabilità, l’eliminazione delle Province e, perché no?, delle Regioni (specie quelle a statuto speciale), la messa in discussione della separazione (e del bilanciamento) dei poteri.

Anche per questo guardo con interesse all’esercizio di voto che si è svolto in questi giorni in Brasile, in Ucraina e in Tunisia. Tre paesi molto diversi fra loro, in altrettanti continenti. Eppure accomunati dal valore paradigmatico di ciò che vi accade. Il Brasile è il cuore dell’America Latina, pulsa con milioni di persone che fino a qualche anno fa rappresentavano il sottosviluppo e che oggi sono parte del BRIC, ovvero di quei paesi che per risorse e tasso di crescita sono considerate le nuove tigri dell’economia. Qui la presidente uscente Dilma Rousseff ha vinto le elezioni presidenziali con un minimo scarto dal candidato liberale. Dobbiamo dire “scampato pericolo“: una sconfitta della sinistra nel grande paese latino americano avrebbe voluto dire il ritorno al passato e avuto ripercussioni non solo in Brasile ma su tutto il continente. Al tempo stesso non possiamo esimerci da una riflessione sulle ragioni della delusione che hanno portato quasi metà della popolazione a preferire il ritorno al potere della destra. Governare un paese come il Brasile non è facile: ricordo con affetto le lunghe conversazioni con Alberto Tridente, amico personale di Lula, sulla complessità di una presidenza condizionata da una maggioranza parlamentare non omogenea e sulla fragilità del PT, non solo sul piano del consenso. Che, è bene ricordarlo, nelle elezioni per la Camera dei Deputati del 2014 ha preso appena il 14% dei suffragi. Qui come altrove la sinistra deve cambiare i propri paradigmi, a cominciare da quelli ambientali e sullo sviluppo, consapevoli della responsabilità globale che il polmone verde del pianeta (la foresta amazzonica) affida a questo paese.

Quando parliamo di Ucraina ci riferiamo al limes dell’Europa. Quel che vi accade in questi mesi non solo ci riguarda ma richiede conoscenza e prudenza, l’esatto opposto di come l’Europa ha agito nei primi mesi della crisi e di quel che la Nato – organizzazione fuori dal tempo e che andrebbe sciolta – ha messo in campo schierando la propria potenza bellica a ridosso della Russia. Così oggi guardiamo con preoccupazione alle conseguenze dell’embargo nell’approvvigionamento del gas russo, agli strani movimenti dell’aviazione militare di Putin sullo spazio europeo. E ad una guerra che si svolge malgrado il cessate il fuoco, quasi ad accettare come endemica la sua bassa intensità. Scenario balcanico. Anche in Ucraina, domenica scorsa si è votato. I risultati ufficiali non ci sono ancora ma quel che ne emerge è la fotografia di un paese dilaniato. Nell’est del paese e in Crimea (ormai a tutti gli effetti nella Federazione Russa) non si è votato così come non hanno votato un elettore su due (aspetto che ci riporta a questa postmodernità) e malgrado ciò il partito filo russo entra in Parlamento con una percentuale intorno al 10%. Di positivo c’è l’equilibrio fra i diversi partiti filo-europei e il fatto che i raggruppamenti della destra radicale, pur superando la soglia per entrare in Parlamento, sono largamente al di sotto delle loro aspettative.

Domenica scorsa si è votato anche in Tunisia, potremmo dire – riferendoci alla rivoluzione dei gelsomini – laddove è iniziato tutto. Come ho scritto qualche giorno fa anche questo paese è un limes, incrocio di mari e di culture. E quel che vi accade, nonostante si tratti di un piccolo paese, rappresenta un segnale non trascurabile. Qui l’esito è stato una clamorosa sconfitta del partito islamista Ennhadha e il successo dei laici di Nidaa Tounes, formazione che vede al suo interno molte delle figure del vecchio regime di Ben Ali. Una prova di democrazia o una forma di restaurazione? Staremo a vedere ma stando alle parole dell’amico Saadi Brahmi (fratello di Mohammed Brahmi, parlamentare del Fronte Popolare assassinato nel luglio dello scorso anno) l’esito elettorale è stato condizionato dai poteri forti (interni ed esterni) e da un clima di forte discriminazione. La sua elezione sarebbe stata davvero un bel segnale, ma contrariamente a quanto era emerso dal primo spoglio dei voti che lo davano per eletto, la cosa è ancora incerta per effetto di un seggio i cui risultati sono stati impugnati.

Da quest’altra parte del Mediterraneo, sabato scorso un milione di persone sono scese in piazza a Roma su invito della CGIL. Si può anche non condividere la linea seguita dal sindacato nella sua contestazione verso la manovra finanziaria del governo e il cosiddetto jobs act, ma quanto accaduto a sole 48 ore dalla manifestazione, laddove l’incontro fra governo e organizzazioni sindacali è stato null’altro che un atto di cortesia, lascia senza parole. Che idea è questa di società dove le istituzioni non interagiscono con i corpi sociali nel definire i diritti dei lavoratori? Non c’è norma sul lavoro in questo paese che non sia stata l’esito di un’intesa fra le parti sociali, l’esecutivo e il Parlamento. Ma il Presidente del Consiglio, intervistato da Lilli Gruber a “Otto e Mezzo“ che gli chiede se tratta con i sindacati, risponde così: “Trattare cosa? La cosa surreale è che Camusso dica che si deve trattare. è giustissimo che il sindacato tratti ma tratta con gli imprenditori per salvare posti di lavoro. Il sindacato non fa trattative con il governo, non chiede permesso, le leggi non si scrivono con i sindacati ma in Parlamento‘. Vent’anni di cultura plebiscitaria hanno lasciato il segno. Renzi accelera verso il “Partito della Nazione“, una contraddizione in termini dice giustamente Massimo Cacciari nell’intervista a Repubblica che riprendiamo integrale in questo blog. E al giornalista che gli chiede cosa ne pensa, Cacciari risponde: “Se ci fosse qualcuno che ha un“idea oltre Renzi, beh allora francamente sarei il primo io a iscrivermi al partito di questo qualcuno. Ma qui hanno tutti facce, e idee, pre Renzi‘. Forse è il caso di parlarne.

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