Adriatico, un mare oltre le nazioni
24 Ottobre 2014Smarrimenti
5 Novembre 2014(25 ottobre 2014) Oggi non sono né a Firenze, né a Roma. Non sono alla “Leopolda” ma nemmeno alla manifestazione della Cgil perché ritengo che gli uni come gli altri – pur nella loro diversità – continuino a rappresentare lo stesso paradigma novecentesco. Che andrebbe superato in virtù della presa d’atto del carattere limitato delle risorse e del fatto che i diritti se non sono universali avvengono alle spese di altri, diventando così privilegi.
Cosa deve accadere perché i pronipoti delle “magnifiche sorti progressive“ si rendano conto che così non si può andare avanti? Non basta il surriscaldamento terrestre e i cambiamenti climatici per comprendere che quel sedicesimo di crosta terrestre che ci serve per nutrire il pianeta si sta riducendo a vista d’occhio, che i mari si stanno drammaticamente impoverendo e con essi le specie nonché le biodiversità? Non sappiamo che l’impronta ecologica ha già superato ampiamente quel che gli ecosistemi riescono a riprodurre? Non ci rendiamo conto che, secondo le previsioni demografiche, nel 2030 saremo sul pianeta in 9 miliardi di esseri umani, ciascuno di essi portatore di diritti ed aspirazioni? Come non capire che se non vogliamo diventare preda del diritto naturale (la legge del più forte) dobbiamo riconsiderare stili di vita e consumi? Come non rendersi conto che il principio stesso di competitività è diventato lo strumento aggressivo per dividere il pianeta in inclusi ed esclusi? Come non accorgersi che la terza guerra mondiale per il controllo delle risorse è già iniziata da tempo?
Domande che ci dovrebbero interrogare sulla necessità di agire sulla qualità piuttosto che sulla quantità in ogni aspetto della nostra esistenza, su un uso delle nuove tecnologie per redistribuire il lavoro e per avere maggiori spazi di conoscenza e di relazione, su un diverso rapporto con il territorio per evitare l’entropia (ma forse meglio sarebbe dire la follia) delle città metropolitane e del nostro abitare. E su molto altro ancora.
Di questo “cambiare verso“ non vedo traccia, né nelle politiche di Renzi alla disperata (e spericolata) ricerca di una ripresa che non ci sarà, né nella difesa delle conquiste del passato che, peraltro, hanno ormai efficacia per una fetta sempre più limitata di persone. Una contrapposizione novecentesca, appunto, fuori dalla quale sembra non esserci spazio per quel pensiero mediano, territoriale e federalista, sul quale abbiamo costruito l’anomalia trentina negli anni del buio dell’arco alpino. Anomalia che non a caso si vuole demolire, pezzo dopo pezzo.
Ritornare ad essere laboratorio politico significa porci queste stesse domande di visione del futuro ma anche del presente, come bussola per muoversi e governare una realtà ridimensionata sotto il profilo delle risorse finanziarie. Meglio con meno, ho cercato di dire, inascoltato.
4 Comments
caro Michele,
mi chiedo ancora come la società e in primis la politica possano continuare ad ignorare ciò che è divenuto così tremendamente evidente.
Perché vediamo quel che si vuol vedere. Perché per troppo tempo siamo stati abituati ad accontentarci del male minore. Perché abbiamo smarrito il senso del pensare e del progettare collettivo. Perché rimaniamo aggrappati ad un tempo che non c’è più. Perché il nostro orizzonte non va oltre il nostro giardino. Perché l’ipocrisia ci fa sopravvivere. Potrei continuare, ma non mi pare il caso.
Dovremmo cercare di riscoprire la curiosità e con essa la bellezza della meraviglia, che – secondo Aristotele – è la madre della filosofia. Nella consapevolezza che tutto questo riguarda il senso della politica.
Mi viene alla mente l'”I care” di don Milani sui muri della sua scuola di Barbiana. Qui siamo all’opposto… meno so, meglio è; meno conosco, più sto tranquillo. Viviamo alla giornata, immersi nell’ipocrisia (come scrive Michele 2), puntando a sopravvivere o a vivacchiare. Senza un progetto e un’idea di futuro e di “mondo”.
La cosa tristissima e chi ti (mi) toglie forze e speranza è che di queste cose (quelle che dice Michele Nardelli) non ne parla nessuno, in particolare in politica! (…per non dire della TV, unica fonte ormai di “sapere”, si fa per dire, per tantissimi di noi; purtroppo!)
Sabato 25 ottobre 2014. Giornata di cortei e di kermesse. Si fanno stime sulla partecipazione, mentre è impossibile tenere il conto degli slogan, degli anatemi, delle polemiche. Nei due campi contrapposti – le strade di Roma, i saloni della Leopolda a Firenze – si rivendica ogni tipo di superiorità. Numerica, culturale, morale. In ogni caso si dice di rappresentare “l’Italia migliore”. Tutte le altre, quindi, dovrebbero sentirsi peggiori e meno meritevoli di attenzione. Dell’altra “piazza” (perché poi di questo si tratta, in entrambi i casi) non si vuole nemmeno sentire parlare. Si denigra, si sminusce, si nega. Ci si sforza per descrivere la propria distanza rispetto all’altro, in un gioco delle parti che tende a cementare le posizioni, a renderle monolitiche, radicalmente fideistiche. Ci si ostina a ripetere riti – ancorché stanchi e persino un po’ retorici – o celebrare personalismi carismatici e accentratori. Una differenza di stili e linguaggi, ancor più che di contenuti (in verità piuttosto simili per certi versi), che determina un pericoloso cortocircuito se non si cercano percorsi alternativi.
A margine di questa contesa – che a qualcuno potrà pure piacere, ma che ha innegabili contorni di autoreferenzialità – rimangono in moltissimi, incapaci di appassionarsi ad uno scontro dalla forte connotazione estetica, ma dalla scarsissima utilità. Perché è evidente che si può descrivere il mondo per coppie semantiche in opposizione (buono/cattivo, nuovo/vecchio, destra/sinistra, padroni/lavoratori ecc.) ma si rinuncia in questa maniera alla possibilità di prendere in considerazione una strada diversa, terza rispetto allo schema semplificatorio offerto dalla giornata di ieri. Perché il partecipare alla vita politica non può ridursi certo alla scelta – apparentemente imposta a noi tutti – tra Renzi e Camusso, tra Serracchiani e Rosy Bindi, tra Boschi e Landini. Tra Oscar Farinetti e Bella Ciao. Ovviamente stare nella “terra di mezzo” espone alle turbolenze della navigazione in mare aperto, alle incertezze di un contesto dalle identità molteplici e spesso contraddittorie, alla fatica dell’ascolto e della messa in dubbio delle proprie certezze. Nella “terra di mezzo” si può soffrire anche di solitudine, benché sia abitata – più o meno consapevolmente – da un numero sempre crescente di persone che non erano né a Roma né a Firenze, o che al contrario non si sentono totalmente estranei ad entrambe le manifestazioni. Un corpo sociale ampio, fotografia fedele della realtà, che non si può imbrigliare dentro schemi fissi che non ne sanno descrivere la complessità. Proprio a questa complessità la politica deve fare riferimento, per sfuggire al vuoto di senso creato dalla dicotomia Cgil – Leopolda e dal codazzo di polemiche che ne sono seguite. Un compito scomodo ma assolutamente necessario.