sabato, 15 febbraio 2020
15 Febbraio 2020sabato, 28 marzo 2020
28 Marzo 2020Una domenica bigia in attesa di un’ultima nevicata, di quelle che vorresti startene in casa, al caldo del focolare, un buon libro, una polenta fumante con i porcini raccolti durante l’estate, magari un vecchio film, la porta di casa sempre aperta agli amici per condividere questo piccolo grande privilegio…
E invece no. Di buon mattino verso Nogaredo, a rinchiuderci in una peraltro affascinante distilleria, per un’intera giornata di formazione (e di autoformazione) cui hanno partecipato circa sessanta soci di Slow Food chiamati ad interrogarsi su questo tempo denso di inquietudine.
E così, qualche minuto dopo le 9 del mattino, iniziano le relazioni. Quella del segretario generale di Slow Food Paolo Di Croce che descrive il fallimento del pensiero unico e del modello di sviluppo neoliberista del quale la crisi climatica non è che una drammatica testimonianza. Ma anche del ruolo che una comunità glocale come Slow Food può giocare a partire dalla capillarità della sua presenza sui territori, dal riconoscimento che le viene in ogni continente oltre le appartenenze nazionali, dalla centralità della questione alimentare laddove il buono, pulito e giusto per tutti costituisce una visione all’altezza di una sfida fra poteri forti e moltitudine.
Per questa giornata abbiamo pensato di avvalerci di contributi esterni. Il primo è quello di Roberto Barbiero, climatologo dell’Osservatorio trentino sul clima, che da anni segue spesso in prima persona il dibattito internazionale sulla crisi climatica. Roberto parte dall’immagine proposta qualche anno fa da Amitav Ghosh in La grande cecità (Neri Pozza editore, 2017), per dire come l’umanità non veda o, forse, non intenda vedere. Perché quel che sta avvenendo intorno a noi non è un castigo del cielo ma l’esito di un industrialismo senza limiti rispetto al quale siamo incapaci di un ripensamento e di una risposta fra mitigazione e adattamento che pure gli organismi intergovernativi (IPCC) indicano come urgente. E che i potenti della terra non intendono attuare tanto da prospettare – sono parole dei documenti ufficiali – “effetti da incubo”. Servirebbero “azioni rapide, lungimiranti e senza precedenti”, ma come sappiamo sono altre le attenzioni alle quali le attuali leadership sono più sensibili, fra primatismi, sovranismi e potere.
Segue il contributo che viene dal Muse sul tema della biodiversità, nella persona del suo direttore Michele Lanzinger e del conservatore responsabile “zoologia dei vertebrati” Paolo Pedrini. Sono tempi dove anche un museo ha il compito di immaginare il futuro, nella consapevolezza dell’immoralità dell’inazione. E dove gli obiettivi delle Nazioni Unite possono costituire l’orizzonte anche di una realtà come il Muse, luogo sentinella nella difesa della diversità bioculturale di un territorio. Allo stesso modo, la salvaguardia delle specie è strettamente legata alla protezione delle aree, investendo non solo piccole porzioni di territorio ma l’insieme della biodiversità dell’ecosistema alpino. In questo gli uccelli diventano “indicatori biologici” che segnalano la qualità del territorio e le sue metamorfosi.
Il confronto prosegue mettendo a confronto in una tavola rotonda coordinata da Walter Nicoletti dal titolo “Dialogo fra divulgatori e produttori. La biodiversità delle piccole produzioni”, alcuni dei protagonisti dei presidi trentini di Slow Food: Marisa Corradi, presidente del Caseificio degli Altopiani e del Presidio del formaggio Vezzena; Manuel Cosi, presidente del Presidio della Razza Rendena di Giustino; Noris Cunaccia, la “signora delle vette”, responsabile di Primitivizia di Spiazzo; Giuseppe Pedrotti dell’azienda Agricola Gino Pedrotti di Cavedine e presidente del Presidio del Vino Santo della Valle dei Laghi. Con loro anche Giampaolo Gaiarin, responsabile per Slow Food dei presidi del Trentino Alto Adige – Sud Tirolo. Un racconto, il loro, fatto di passione professionale e di saperi fortemente intrecciati con il territorio che, nel corso del tempo, hanno imparato a comunicare diventando così veri e propri animatori territoriali. Ma anche di dedizione e fatica non sempre riconosciuta, talvolta avversata. Ma ripagata dal sentirsi parte di una grande rete globale come quella di Slow Food che oltre a certificarne la qualità li rende protagonisti di un processo di cambiamento e di un approccio responsabile verso il pianeta.
Nel pomeriggio, dopo un ottimo pranzo proposto dai Cuochi dell’alleanza, tocca a me come esponente del Consiglio Nazionale di Slow Food. Parlo del significato che assume l’ormai prossima edizione di Terra Madre (8 – 12 ottobre, Torino) come opportunità per dar corpo dopo il congresso internazionale di Chengdu alla costruzione di un nuovo racconto.
Trattandosi di una giornata formativa, nel mio contributo parto dalla necessità di cambiare oltremodo il nostro sguardo sul presente, ripercorrendo le tappe attraverso le quali Slow Food è arrivata sin qui. Ne aveva parlato Carlo Petrini nel congresso di due anni fa a Montecatini, indicando quattro passaggi essenziali:
– la presa di coscienza che non si potesse parlare di cibo senza affrontare il tema della perdita delle biodiversità e del crescente impoverimento del patrimonio di conoscenza che questo comporta;
– il diritto al piacere come prerogativa di tutta l’umanità, includendo cioè quella parte marginalizzata che pure delle biodiversità è stata sin qui la principale custode;
– la nascita di Terra Madre come incontro relazionale dei produttori di ogni parte del mondo e dell’Università di Scienze gastronomiche, il far propria una visione sistemica del mondo del cibo;
– il Congresso di Chengdu, il buono, pulito e giusto ma per tutti, ovvero l’assunzione della dimensione globale e locale come polarità di riferimento dell’associazione.
Passaggio cruciale, quest’ultimo, nella consapevolezza che l’interdipendenza avrebbe rapidamente scardinato gli assetti precedenti, nello sguardo sul mondo come nel pensare e agire insieme globale e locale. Un passaggio faticoso, certo, perché significa cambiare i paradigmi che per almeno due secoli hanno segnato la modernità. E che potremmo descrivere con alcune parole chiave.
“Nessun uomo è un’isola” scriveva lo scrittore inglese John Donne quattro secoli fa. Frase resa celebre da Ernst Hemingway nell’incipit iniziale del romanzo “Per chi suona la campana” e più recentemente parafrasata da una nota catena di supermercati:
«Nessun uomo è un’isola, intero in se stesso. Ogni uomo è un pezzo del Continente, una parte della Terra. Se una Zolla viene portata dall’onda del Mare, l’Europa ne è diminuita, come se un Promontorio fosse stato al suo posto, o una Magione amica, o la tua stessa Casa. Ogni morte d’uomo mi diminuisce, perché io partecipo dell’umanità. E così non mandare mai a chiedere per chi suona la campana: Essa suona per te.»
E allora quel per tutti è la prima parola chiave. Perché nonostante siano trascorsi quattro secoli dalle parole di John Donne il paradigma dello stato nazione, malgrado sia stato all’origine delle più grandi tragedie del Novecento, continua ad essere radicato nel modo di pensare e di sentire di un’umanità che si vive in sottrazione. E la campana che suona in continuazione ci lascia indifferenti.
La seconda parola chiave è comunità. Non come un nuovo modo di essere di Slow Food che sostituisce presidi e condotte, ma la comunità come snodo essenziale della relazione, della connessione con il mondo. La comunità che custodisce il segreto dell’incontro e che lo rimette in gioco in una relazione continua che accresce conoscenza e sapere.
La terza parola chiave, sulla quale abbiamo insistito nel congresso regionale del maggio 2018 e che nel congresso di Chengdu era implicita, è il limite o, meglio, la cultura del limite. La consapevolezza del carattere limitato delle risorse e della nostra impronta ecologica che, come sappiamo, è già oggi ben oltre il limite dato dalla capacità degli ecosistemi terrestri di produrre le risorse di cui abbiamo bisogno.
Quando nel 1972 il Club di Roma propose il rapporto divenuto celebre dal titolo “I limiti dello sviluppo” venne tacciato di catastrofismo. Alle previsioni di insostenibilità si rispose con la fede nel veleno, l’idea che la scienza avrebbe trovato il rimedio ad ogni criticità avanzata da quel Rapporto. Quelle previsioni si rivelarono non solo realistiche ma ben al di sotto di quel che sarebbe accaduto nei decenni successivi. E se il pianeta ancora negli anni ’60 consumava circa la metà delle risorse che gli ecosistemi terrestri erano in grado di produrre annualmente, oggi si consuma quasi il doppio di quanto sarebbe eticamente lecito nel riconsegnare intonsa la Terra dataci in prestito dalle generazioni a venire.
Ora siamo ampiamente oltre il limite. E quel che accade intorno a noi, dalla casa comune che brucia (in Amazzonia come in Australia, in California come in Siberia) al surriscaldamento degli oceani, dai ghiacci dell’Artico a quelli delle Alpi che si sciolgono, dagli eventi estremi che inondano a quelli che spazzano in una notte decine di migliaia di ettari di bosco (come nel caso di Vaia), dall’invasione delle locuste in Africa all’insorgere di nuove patologie come il “coronavirus”, non sono che altrettante facce della medesima insostenibilità.
Si tende a descrivere tutto questo come emergenze, quando invece abbiamo a che fare con cambiamenti strutturali legati ad un modello di sviluppo insostenibile. E’ proprio al cambio dei paradigmi che hanno segnato la storia moderna che dovremmo guardare, immaginando un nuovo racconto, una nuova descrizione del nostro tempo, nuove geografie.
Nuove geografie è la quarta espressione chiave. Qualche tempo fa Ilvo Diamanti indicava la necessità di darci nuove mappe per raccontare gli avvenimenti, nuovi atlanti per capire i processi e le connessioni, nuove bussole per sapersi orientare. Invece usiamo ancora la carta del Mercatore (1569) anziché che quella di Peters (1973) per descrivere il pianeta, a suffragio del dominio dell’Occidente sul mondo.
Che cosa significa dunque l’espressione “nuove geografie”?
Se la descrizione del mondo nell’era moderna è avvenuta all’insegna degli stati nazionali, oggi i processi con cui abbiamo a che fare sono di natura sovranazionale: lo sono i cambiamenti climatici, le desertificazioni ed il surriscaldamento dei mari; lo è la crisi demografica che, combinata con altre crisi (ambientali, sociali, militari…), determina nuovi processi migratori; lo è la finanza globale, laddove i titoli derivati smuovono una massa di denaro dalle 10 alle 15 volte il PIL mondiale; lo è il controllo delle risorse, l’accaparramento della terra, la riduzione e la privatizzazione delle biodiversità e delle conoscenze (dalle sementi ai brevetti); lo sono le delocalizzazioni delle produzioni che disegnano moderne schiavitù; lo sono i corridoi che regolano i flussi globali e le strategie portuali; lo sono i meccanismi di omologazione culturale e gli algoritmi che orientano i consumi di massa; lo è infine anche la crisi politica ed istituzionale che, svuotando e delegittimando i luoghi del diritto internazionale, delinea nuovi assetti di potere (la post politica).
La sfida per un’associazione a carattere globale e comunitario come Slow Food è quella di abitare questi processi, per comprenderli ed interagirvi, non per rincorrerli o accettarne la declinazione emergenziale.
Sarà questo il cuore dei prossimi congressi di Slow Food, quello internazionale e quelli nazionali (pur nella loro dimensione sempre più residuale) e del confronto che dovrebbe avvenire sui territori. E sarà proprio in questa cornice che Terra Madre 2020 potrà fare da battistrada nel delineare un nuovo racconto, come nelle precedenti edizioni sempre a partire dai produttori di ogni parte del pianeta ma con una articolazione del tutto originale ben oltre le bandiere nazionali.
Saranno infatti quattro gli ecosistemi attorno ai quali verrà strutturata Terra Madre 2020, riconducibili alle terre alte, alle terre urbane, alle terre di pianura e alle terre d’acqua. Per ognuna di esse una vasta articolazione ad investire i temi delle risorse naturali, delle produzioni agroalimentari, delle biodiversità da difendere e valorizzare, degli equilibri da ricostruire. Aspetti che provo rapidamente a declinare nel mio intervento, sulle terre alte e non solo. Davvero un cambio di sguardo, sempre ad esserne capaci.
La giornata prosegue secondo il programma con l’intervento di Paolo Betti (responsabile regionale dei Cuochi dell’Alleanza) sul lavoro di educazione nelle scuole, di Sergio Valentini (Portavoce regionale di Slow Food) sull’attività del Comitato Regionale, di Tommaso Martini (responsabile della condotta Valle dell’Adige e Alto Garda di Slow Food) sulle opportunità di comunicazione messe a disposizione dalla nuova tessera elettronica.
A seguire, il saluto conclusivo di Paolo Di Croce che nell’esprimere compiacimento per la giornata formativa cui ha potuto assistere e per il valore delle esperienze riportate negli interventi, ci lancia una sfida: il nostro contributo a Terra Madre sul tema della montagna.
Per finire in bellezza l’intensa giornata, il laboratorio di degustazione dei formaggi (i presidi del Casolet, del Puzzone, del Vezzena e del Trentingrana di alpeggio) curato con maestria da Giampaolo Gaiarin.
In una fredda domenica di pioggia, sessanta persone malgrado il “coronavirus”, i quaderni di appunti e l’attenzione dei momenti di formazione, la qualità delle relazioni e delle esperienze raccontate, il buon cibo preparato con cura per le pause dei nostri lavori, il laboratorio di degustazione del formaggio… davvero una giornata utile e piacevole che non sarebbe stata possibile senza l’apporto di Fabiana Brandino e Nicola Fattibene, a cui va il mio e nostro ringraziamento.