giovedì, 26 dicembre 2019
26 Dicembre 2019venerdì, 24 gennaio 2020
24 Gennaio 2020venerdì, 13 dicembre 2019
Caro Mario,
provo a scrivere le parole che avrei voluto rivolgerti nel momento del nostro ultimo saluto ma che, per emozione, ritrosia o timidezza, non mi sono venute.
Il mio primo pensiero, al di là dei tanti episodi di vita che abbiamo saputo intrecciare e che pure sarebbe bello rammentare, non può che andare all’impegno politico che, di questi tempi, facciamo un po’ fatica a ricordare ed elaborare. Che invece è giusto rivendicare perché in ciascuno di noi non ci sono compartimenti stagni e perché la politica per noi occupava (e ha continuato ad occupare) uno spazio grande, di cuore e di pensiero, che ci ha fatti incontrare lungo un percorso impervio e appassionante.
Non una moda, non un fuoco giovanile, non l’idea oggi così suadente e finta di chi “si presta” alla politica, ma la politica come modo di guardare e vivere il proprio tempo, coltivandola con la passione delle idee e con l’ironia di saperci perdenti ancor prima di cominciare, perché eretici e perché il nostro modo di interpretare l’impegno politico non amava le sirene accattivanti del potere che pure non hanno mai smesso di metterci alla prova.
Non per coerenza verso una dottrina che poi, associata a Mario, non potrebbe che far sorridere, ma per la bellezza di stare al mondo senza mai far finta di niente di fronte alle peggiori come alle piccole porcherie. Parte di un collettivo che nell’agire locale si sentiva connesso con la dimensione globale. Così, nei momenti più delicati come nei passaggi più difficili, Mario c’era.
Mi si affaccia un ricordo lontano. Quando decidemmo che le nostre idee andavano rappresentate nelle istituzioni dell’autonomia, in quello splendido autunno del 1978 che ci avrebbe visti andare, casa per casa, portando l’appello di Bepi Mattei per il voto a Democrazia Proletaria, Mario si presentò nella sede di via Gentilotti (nei pressi del ponte dei Cavalleggeri) a Trento portandosi un amico, un distinto signore. «Ecco qui il compagno Valeron – ci disse Mario – il nostro candidato per la Valle di Fassa».
Amavamo le missioni impossibili. Un po’ rivoluzionari terzomondisti, un po’ operaisti, un po’ francescani: in quella vecchia casa dei ferrovieri, diventata inabitabile dopo averci costruito a ridosso un grande condominio sorto dove un tempo c’era la casa Volpi (che conoscevo molto bene per essere uno dei luoghi delle scorribande di quando eravamo ragazzini), si comprendeva al solo entrarci di quale genere di persone eravamo. I vecchi mobili recuperati da Michele il ferroviere, una stufetta a legna per scaldare d’inverno almeno una stanza, un salone ricavato dall’abbattimento di una parete che l’aveva resa ancor più traballante, un locale per la carta e il ciclostile (e un ciclostile ereditato dalle sedi precedenti con qualche milione di volantini stampati all’attivo) e poi l’immancabile Granma, l’edizione francese dell’organo del Partito Comunista Cubano che ci arrivava pressoché quotidianamente in abbonamento postale. Mi sembra ancora oggi di sentire l’odore della carta ruvida con cui veniva stampato.
Era la fine degli anni ’70, stavamo entrando in quel decennio dove scomparvero prima i Consigli di Fabbrica e poi anche tante fabbriche, alla radicalità politica si contrapposero lo stragismo e gli anni di piombo, al protagonismo sociale subentrò il mantra del successo e dell’arricchirsi.
Malgrado lo spirito del tempo, in quel luogo diventato per caso una sede di partito, si respirava miseria. Eppure quel signore distinto non fece una piega e firmò l’accettazione di candidatura. Così completammo la lista dei candidati, anche noi con il nostro rappresentante ladino. Diventammo amici e quell’anno con Gabriella andammo a passare il nostro primo Capodanno da loro, a Canazei. La sua casa era un po’ come la nostra sede. Un po’ matti effettivamente eravamo e dormimmo in una stanzetta gelida tanto che, per difenderci dal freddo, il padrone di casa ci diede una bottiglia di whisky. Anche lui non scherzava… Qualche mese dopo Valeron partecipò con grande naturalezza ad un’assemblea nazionale dei delegati nei pressi di Rimini nella quale come al solito ci azzuffammo fra una tesi e l’altra. Eravamo preoccupati dell’idea che di noi si sarebbe fatta, ma anche in questo caso rimase imperturbabile.
Poi ci perdemmo di vista. Ogni tanto chiedevo a Mario se avesse sue notizie ma niente o quasi. Quando al cimitero di Trento ci siamo salutati, mi guardavo attorno se per caso non spuntassero i baffi ben curati di Valeron. Chissà che fine avrà fatto Paolo Soraperra, così si chiamava[1].
Dopo qualche anno andai a lavorare a Roma, la città