sabato, 28 settembre 2019
28 Settembre 2019mercoledì 24 giugno 2009
8 Novembre 2019Iniziamo la giornata di Sarajevo in un piccolo locale della Bascarsija, la bosanska kafana Behar, che un’anziana signora gestisce da anni e che rappresenta più di altri ciò che resta del genius loci di questa città. Mentre prendiamo la bosanska kafa (e qualcuno la smreka, letteralmente il succo dell’abete rosso, fatto in realtà con le bacche di ginepro e limone), ci mettiamo in circolo a parlare di Sarajevo e di quel che la fine del Novecento le ha riservato.
Credo che non avremmo potuto scegliere un locale migliore per farlo, perché parlare dell’assedio di Sarajevo e della resistenza di questa città significa proprio parlare della sua irriducibilità all’imbarbarimento. Della cultura che malgrado tutto si coltivava nella vita quotidiana, del suo carattere cosmopolita nonostante l’insidia nazionalista, della dignità delle persone come risposta alla violenza della guerra. Perché era in fondo proprio questo spirito che con l’assedio si voleva spezzare.
La città ha saputo resistere, certo, ma è necessario dire – fuor di retorica – che gli assedianti non la volevano prendere perché non se ne sarebbero fatti nulla di una città ostile: il loro intento era infatti quello di piegarla nel suo modo di essere e nella natura dei suoi abitanti, bosgnacchi, croati, serbi, ebrei o semplicemente jugoslavi che fossero.
Per questo gli obiettivi militari furono sin dal primo momento i luoghi della cultura, l’istituto orientale con i suoi preziosi manoscritti che ci raccontavano di come si era andata formando l’Europa, la biblioteca nazionale e universitaria con quel che rappresentava sul piano affettivo e civico per ogni sarajevese.
Millequattrocento giorni sono un tempo infinito. Ma se quell’assedio durò così a lungo – come ebbe a dire con straordinaria onestà intellettuale il sindaco di Sarajevo Muhidin Hamamdzic nel memorabile incontro che ebbe luogo a Roma nel 2001 per iniziativa di Osservatorio Balcani con l’allora ambasciatore jugoslavo Miodrag Lekic – era perché qualcuno anche della sua parte ha voluto così. Perché la guerra è il massimo contesto di deregolazione e nella guerra gli affari prosperano.
Basterebbe osservare chi oggi ostenta ricchezza o, all’opposto, la gente al mercato che misura quel che può spendere di una misera pensione di cento euro, per comprendere chi l’ha voluta e vinta questa guerra. O l’assetto di potere che ne è venuto, il consenso verso i partiti nazionalisti, l’incubo che ancora incombe nella fatica del vivere come nella non elaborazione collettiva di ciò che è accaduto.
Sarajevo ha saputo resistere e di questa straordinaria resistenza ancora se ne possono cogliere le tracce. Ma la frattura fra oriente e occidente non si è affatto ricomposta e così l’Europa è ancora priva del suo cuore balcanico.