lunedì, 24 dicembre 2018
24 Dicembre 2018venerdì, 1 febbraio 2019
1 Febbraio 2019Mentre il treno alta velocità sfreccia attraverso la pianura padana rileggo un romanzo della mia giovinezza, Uomini e no di Elio Vittorini. Sono affezionato a quella vecchia edizione degli Oscar Mondadori del 1965 con il disegno in acquarello (o forse a cera) del protagonista, Enne 2, con la bicicletta e il mitra in mano. L’avevo ripescato da uno scaffale dalla mia biblioteca dopo chissà quanto tempo per prendervi spunto nell’interloquire con un caro amico, Francesco Picciotto, che qualche giorno prima aveva usato per un suo corsivo sulla scelta di disobbedienza civile del sindaco di Palermo, la sua città, proprio quel titolo, Uomini e no.
Un romanzo ambientato nella Milano dell’inverno 1944 – un inverno mite come non accadeva dal 1908 scrive Vittorini – durante la resistenza urbana al nazifascismo. Dal finestrino del treno vedo questa città, in questo nostro inverno forse ancora più mite. Settantadue anni dopo tutto è diverso, i luoghi e le atmosfere irriconoscibili se non forse per il nome delle vie che il romanzo richiama. Eppure siamo ancora qui ad interrogarci – di fronte al risorgere di un razzismo solo sopito e dei nuovi fascismi – se questi sono uomini oppure no.
Anche la mia risposta oggi è molto diversa da quella che avrei dato al tempo della mia prima lettura di quel romanzo tanti anni fa: sono uomini, certo. Lo era anche il tedesco dalla faccia triste di operaio che – nel romanzo di Vittorini – un altro operaio decide di non uccidere, come un uomo era quel giovane partigiano che non aveva ancora imparato ad uccidere. La banalità del male mi ha insegnato che il criminale ce lo portiamo dentro, le tragedie del Novecento che l’“uomo nuovo” non esiste.
Sono queste le immagini e questi pensieri che mi frullano per la testa quando arrivo a Torino. Malgrado i tanti amici, quelli di un tempo ormai lontano (maestri come Vittorio Foa o Alberto Tridente) come quelli di oggi, Torino è una città che non è nelle mie corde. Conservatrice e altezzosa – dico alla mia cara amica Silvia Nejrotti mentre dalla Stazione andiamo verso via Bogino – come conviene ad un’antica capitale. Ne ridiamo e devo stare attento a quel che dico sapendo del suo amore profondo per quei palazzi e quelle strade che dell’antico splendore hanno conservato perfino i nomi sabaudi. Nel cuore della città, il Circolo dei lettori a Palazzo Graneri della Roccia non è certo da meno.
Salotto buono della borghesia torinese, si sarebbe detto un tempo. Ed in questo luogo prestigioso dove avvengono gli incontri con gli autori, ho l’impressione di una frequentazione piuttosto esclusiva, quand’anche democratica e più o meno di sinistra. Comprese le “fatine”, mi sussurra Marco Revelli, riferendosi alle protagoniste delle mobilitazioni pro TAV. A conferma mi vien da pensare dello spirito del tempo che anche qui, nella grande città operaia del passato, ha capovolto significati ed orientamenti.
Non nascondo che quelle stanze austere mi mettono un po’ soggezione. Ma io forse non faccio testo, figlio di una terra marginale del vecchio impero asburgico e tradizionalmente povera che ha trovato riscatto solo grazie all’autonomia. Invece, a dispetto del luogo e del mio pregiudizio, c’è grande animazione. E non si tratta solo delle persone che sono in attesa di un intellettuale di spicco come Gianni Vattimo, qui per la presentazione del libro di Claudio Gallo L’ultimo albero. Ci sono anche molti giovani che, come in una moderna biblioteca civica, trovano un luogo di silenzio per leggere e studiare. E poi, quello che ancor più mi stupisce, è che anche nella piccola Sala della musica che ospita il nostro incontro ci sia un pubblico più numeroso di quello che mi aspettavo per la presentazione di Sicurezza.
Forse qui non c’è il calore che ho incontrato altrove, ma la conversazione fra Stefano Garzaro (che modera l’incontro), Marco Revelli e chi scrive si fa subito interessante con l’effetto di inchiodare lì tutti i partecipanti fino alla fine. Con Marco Revelli ci conosciamo da molti anni, fra ambiti di impegno sociale e ricerca politica, scelte in genere condivise, altre volte diverse, ma sempre nell’intento di cercare strade originali. Si capisce, nei suoi appunti come nei passaggi del libro citati, che quello di presentare Sicurezza è stato un compito assunto con il piglio dell’intellettuale rigoroso qual è. Definisce Sicurezza un piccolo grande libro, tempestivo, che non liscia il pelo alla paura e che si pone senza retorica il tema della cura.
Le sue osservazioni e le domande di Stefano mi permettono di raccontare la genesi tutt’altro che banale di questo libro, a partire dalla proposta di indagare le parole (“Parole allo specchio” è la collana delle edizioni EMP in cui è inserito) e in particolare quella parola – sicurezza – che in questi mesi è diventata il mantra dell’imbarbarimento di questo paese e non solo. La tempestività della sua uscita non è dunque casuale. Di non esorcizzare il problema ma nemmeno di fare sconti laddove la paura nasconde l’ipocrisia di chi, pur nell’evidente insostenibilità del nostro modello di vita, non è disposto a cambiare nulla, anche a costo di essere in guerra con il prossimo. E infine di cercare strade di cura diverse dalla retorica di un umanesimo ipocrita e povero di mondo. Marco cita il passaggio del libro in cui si parla dell’esperienza del Forum trentino per la pace e i diritti umani laddove il racconto di storie finite nell’oblio ci ha permesso e ancora ci permetterebbe (a volerlo proseguire) di elaborare il Novecento e di smontare l’idea stessa dello “scontro di civiltà”. Stefano quello dove si parla della semplicità del riprendersi cura delle città a partire dagli spazi diventati luoghi di proliferazione della paura.
Osservo il pubblico di fronte a me, vedo interesse e una sorta di complicità anche nei passaggi più critici verso la politica e i nostri mondi, strapieni di retorica ma incapaci di raccontare questo tempo e di ascoltarne i segni, quelli che ci manda la natura come quelli della poesia (dal Leopardi de La ginestra, al Benjamin di Angelus Novus, al Zanzotto della sua ultima intervista sul “progresso scorsoio”) che abbiamo scelto di non vedere e di non ascoltare quand’anche ci ammonisse del nostro delirio.
E ci vedo una sedia vuota che qui, in questa sua città e in questo luogo, avverto ancora più che altrove. Luca Rastello se ne è andato ormai da più di tre anni ed il vuoto che ha lasciato non è solo la mancanza di un amico con il quale amavo conversare per queste vie o sulle strade dei nostri Balcani. E’ proprio il vuoto di sguardo che avverto sul presente e con il quale Luca, attraverso i suoi libri e la sua ironia, ti costringeva a fare i conti. Quante cose avremmo da raccontarci, caro Luca, andando a cena e discutendo davanti ad un bicchiere di vino di questo tempo e del dopodomani che non ci sarà.
Un vuoto di cui parlo con Silvia e che nulla sembra colmare. Qualche giorno dopo Piazza Castello sarà di nuovo gremita dal popolo dello sviluppo senza confini che dell’insostenibilità del nostro modello e dei nostri consumi, dei cambiamenti climatici e dei loro effetti qui ed ora, della terza guerra mondiale e dei naufraghi dello sviluppo oppure dell’ipocrisia degli aiuti internazionali sembra non importare un fico secco. Il popolo della “sicurezza” e del “prima noi”.